Intervista a ZEDR

Per cominciare bene il nuovo anno, abbiamo intervistato il cantautore Luca Fivizzani, in arte ZEDR, reduce dalla pubblicazione dell’album Futuro Nostalgico, edito per Overdub Recordings.

Ciao ZEDR, come stai? Sappiamo che è un momento difficile per tutti. Avresti dovuto essere in tour in questo periodo?

Eh sì, avevamo già alcune date pronte, che purtroppo sono saltate. Abbiamo fatto in tempo a fare lo showcase del 24 ottobre a Firenze e poi si è fermato nuovamente tutto.

Visto lo stop forzato delle attività musicali, come stai impiegando il tuo tempo libero a livello di ascolti?

Al momento mi sono fissato con Orville Peck: è un crooner canadese, una versione 2.0 di Chris Isaak, ve lo consiglio. È un personaggio con un grande impatto a livello di immagine, perché si veste da cowboy, ma indossa sempre una maschera e non mostra mai il volto. Dopo lunghe ricerche sono comunque riuscito a scoprire la sua identità: si tratta del cantante di un gruppo punk, gli Eating Out.

E per quanto riguarda l’Italia?

Faccio un po’ fatica ultimamente a trovare della musica interessante in Italia, anche se grazie alla Overdub Recordings ho scoperto tantissime band di valore.

La scuderia di Overdub, di cui anche tu fai parte, è veramente ricca di giovani talenti. Cosa manca a ZEDR e alle altre realtà underground per riuscire a fare quello step in più nell’ingranaggio dell’industria musicale?

Manca la possibilità di accedere ad una realtà che possa farci suonare dal vivo, cosa già difficile anche prima del Covid e diventata ora impossibile, nonostante le iniziative dei live in streaming, di cui non sono un grande fanatico, perché penso che la musica vada ascoltata dal vivo, con le proprie orecchie. Inoltre, anche a livello economico, i live sul web non sono remunerativi. Non riesco ad immaginare come potranno andare avanti le agenzie di booking e di organizzazione eventi, oltre agli artisti, anche quelli importanti, se la situazione non si sbloccherà. Quella dei posti distanziati poteva essere una soluzione, ma siamo arrivati addirittura alla chiusura dei teatri e quindi anche quell’idea è stata momentaneamente accantonata.

Nonostante tutte queste restrizioni, alcune forme di intrattenimento continuano ad essere portate avanti, vedi ad esempio i talent show, gli eventi istituzionali come il concerto di Natale in Senato e a breve anche il festival di Sanremo. Il messaggio che arriva ai musicisti emergenti è quello di dover passare obbligatoriamente attraverso i programmi televisivi della cultura di massa?

Sì, purtroppo è così. Anche se il contraccolpo l’hanno subito anche i musicisti che hanno provato a sfondare tramite quei canali, dato che al termine del talent non c’è stata la possibilità di andare a suonare dal vivo. Certo, hanno ottenuto visibilità sulle piattaforme di streaming, ma la spinta della televisione prima o poi si esaurisce.

Questo meccanismo televisivo è la strada più veloce per farsi conoscere, ormai da un po’ di anni a questa parte.

Come dicevo, il problema esisteva anche prima della pandemia, anche se nell’ultimo periodo l’indie stava riuscendo piano piano ad aprirsi ad un pubblico più ampio. Faccio l’esempio di due band che non seguo, ma che si sono fatte strada partendo dal basso e mi riferisco ai Thegiornalisti e ai Pinguini Tattici Nucleari. Anche questi ultimi, però, sono in fin dei conti dovuti approdare a Sanremo per diventare mainstream.

Probabilmente stiamo parlando di due realtà che hanno alle spalle un progetto di marketing decisamente più robusto. Al giorno d’oggi ciò che conta maggiormente sono la casa discografica, e quindi l’investimento che c’è dietro ad una band, e il pubblico dall’altro lato. Il prodotto in sé, conta fino ad un certo punto. Ovviamente ci riferiamo al mainstream.

Purtroppo è così. Nella storia della musica c’è anche sempre stato il discorso delle mode, già dai tempi dei Beatles; al giorno d’oggi ci sono due ondate: quella rap e trap e quella del cosiddetto indie e la maggior parte degli artisti prova a farsi strada scimmiottando chi è arrivato al successo facendo questi generi musicali. Così ci ritroviamo sommersi da una marea di musica tutta uguale, all’interno della quale è difficile trovare qualcosa di veramente interessante. Inoltre, nei periodi di crisi, c’è questa tendenza al preferire leggerezza e musica meno impegnata, dal contenuto più frivolo.

Si tende a preferire qualcosa che già si conosce, rispetto alle novità. Un po’ un effetto nostalgia, che richiama anche il titolo del tuo album, Futuro Nostalgico. È un po’ un ossimoro, com’è nata l’idea di questo titolo e del disco in sé?

Futuro Nostalgico è un ossimoro che mi è venuto in mente quando ho iniziato a mettere una accanto all’altra le canzoni che pensavo dovessero far parte del disco. Parlando, nei miei brani, dell’ossessione per l’apparenza e per i cellulari e della ‘dittatura’ di Facebook, ho pensato che, prima o poi, arriverà quel momento in cui ci sveglieremo e non ci sarà rimasto nulla se non la nostalgia per ciò che non c’è più. Percepisco una voglia di cambiamento tra la gente, da chi si allontana dai social, dopo tanti anni, a chi ricomincia a leggere, a chi sta rivitalizzando il mercato del vinile, a discapito della musica liquida. Acquistare un disco in vinile significa avere un contatto diverso con la musica, significa ascoltarlo dall’inizio alla fine, senza skippare i brani in maniera ossessiva. Siamo soggiogati, ormai, dai comportamenti dettati dagli smartphone.

Chi è cresciuto nell’epoca dei vinili e delle musicassette può capire.

Ma anche il CD andava bene, è il digitale il problema, nato con gli Mp3 e accentuatosi con l’avvento delle piattaforme di streaming, che ci hanno portato ad un atteggiamento bulimico nei confronti della musica e anche dell’immagine. Tornando al discorso di prima sulle possibilità che può avere una band emergente di fare successo, il discorso è legato anche all’immagine, alla presenza che si ha sui social.

È difficile pensare ad un futuro che ci riconduca ad un’era pre-smartphone. È utopico. Tu sei anche un grande appassionato di cinematografia horror italiana anni ‘70/‘80, giusto?

Sì, esatto. Il nome ZEDR deriva, infatti, da un film di Pupi Avati, Zeder. Ho tolto la e perché avevo bisogno di un nome che potesse essere riconducibile a me immediatamente; inoltre, è solo una citazione al film, non volevo copiarne il titolo. L’ho scelto perché secondo me è un film che non ha eguali, veramente stupendo. Tra l’altro pare che Stephen King abbia preso l’idea per Pet Sematary proprio da Zeder di Pupi Avati. Un altro aspetto interessante di questo film, che mi ha sempre affascinato, è la fotografia luminosissima, nonostante l’argomento trattato sia oscuro.

Quando e come nasce ZEDR come progetto? Quando ti sei accorto di essere, oltre che un fotografo, un musicista?

Il primo disco che incisi, nel 2014, uscì a nome mio, Luca Fivizzani. Era prodotto da un bravissimo musicista fiorentino, Matteo Giannetti. Purtroppo, nella prima fase della mia vita, ho sempre avuto delle difficoltà nel suonare qualcosa che mi rappresentasse veramente. La musica che facevo era come se mi venisse imposta, sostenevano tutti che il mio modo di scrittura fosse indirizzato verso la musica leggera e io questa cosa non l’ho mai digerita, perché i miei ascolti erano altri. Quando ho iniziato a scrivere quest’ultimo album, avevo già in mente di volerlo fare a modo mio. Era da una vita che provavo ad avvicinarmi al country western, alla psichedelia, ma non mi era mai stata data la possibilità di farlo. Quando ho trovato il produttore giusto, Samuele Cangi, e il chitarrista adatto, Giulio Peretti, sono riuscito finalmente a lavorare in quella direzione.

Nei tuoi brani non ci sono soltanto la connotazione country e quella psichedelica, ma una vasta gamma di suoni, dalla dreamwave, al folk, al funky. Addirittura troviamo melodie vagamente latineggianti, nel brano Ogni Parte di Me. C’è un gran lavoro di ricerca delle sonorità.

Abbiamo fatto un bel lavoro da quel punto di vista, sì. Samuele Cangi è un vero produttore, da questo punto di vista. Uno che non bada ai trend, è un amante della musica a tutto tondo. C’è dentro davvero di tutto in questo disco; addirittura, nel Grande Dittatore, c’è una parte di fiati molto forte. Produrre questo disco è stato come fare un viaggio nella musica a 360 gradi.

Non vi siete posti alcun paletto.

Solo qualcuno. Per esempio, non ho voluto la presenza del pianoforte e della chitarra acustica, ma non perché li odi come strumenti, piuttosto perché avevano sempre fatto parte della mia musica e avevo bisogno di cambiare. Sono strumenti che tendono ad ammorbidire molto il sound, come anche gli archi, che non uso per lo stesso motivo e a cui preferisco i fiati.

Hai tirato una linea col passato e sei ripartito da zero. E il risultato è veramente notevole. Dispiace che dischi come questo non riescano ad arrivare alle radio e al mainstream. C’è un po’ la sensazione che non ci sia stato il ricambio generazionale, soprattutto nella musica italiana. Va bene essere affezionati alle vecchie glorie del rock, ma se non si prova a dare spazio ai giovani, ci ritroveremo ad ascoltare della musica sempre più uguale, impostaci dalle major e dalle principali radio.

Sì, il ricambio generazionale non c’è stato ed è vero che c’è quest’imposizione che arriva dall’alto sul tipo di musica che si deve fare. Era così già qualche anno fa, ma adesso la situazione è precipitata. È pur vero che se ti pieghi a ciò che ti impone il mercato, forse è anche perché non hai molto da dire. Oltretutto le mode, si sa, tendono col tempo a sparire per lasciare spazio alle nuove tendenze. In particolare le mode di adesso. Non riesco ad immaginare le canzoni trap che diventano degli evergreen. Tra qualche mese saranno già da rottamare. Ad esempio, per quanto non lo segua, apprezzo molto il percorso che ha fatto Achille Lauro, che si è staccato dalla trap, per passare a qualcosa di diverso, galleggiando sul rock, fino ad arrivare allo swing dell’ultimo disco.

Beh, dietro ad Achille Lauro, probabilmente, c’è un progetto discografico importante, con un entourage di tutto rispetto, che è in grado di consigliarlo e indirizzarlo anche a livello di marketing, al fine di renderlo sempre innovativo. Anche perché ha 30 anni e sarebbe un po’ ridicolo sentirlo cantare ancora dei testi che trattano tematiche adolescenziali. Quel tipo di musica è strettamente legata ad un target commerciale ben preciso. Tornando per un attimo ai talent, cosa ne pensi del lavoro svolto quest’anno da Manuel Agnelli? Un programma televisivo del genere, può essere usato come cavallo di Troia per far riemergere l’interesse nei confronti della musica rock?

Per metà. L’esposizione mediatica del talent show può portare una ventata di attenzione verso il genere, ma allo stesso tempo mi chiedo: perché bisogna per forza passare attraverso quel canale, per arrivare al pubblico? Inoculare alla gente la cultura rock per mezzo di X Factor mi sembra un’operazione un po’ forzata. Non ci vedo genuinità in questo. Ho apprezzato le scelte un po’ estreme, quantomeno per un contesto televisivo, che ha portato sul palco Agnelli, ma alla fine chi ha vinto? La solita minestra.

Oltretutto quest’anno, come dicevamo prima, le band non hanno potuto nemmeno cavalcare l’ondata di popolarità andando in tour. I Maneskin, qualche edizione fa, non vinsero il programma, ma ebbero un grande successo al di fuori, addirittura con diverse date sold out.

Sì, esatto, perché ebbero la possibilità di suonare in giro. Anche se , torniamo alla domanda di prima: perché ci deve essere bisogno di X Factor per farsi conoscere? Qualche anno fa le case discografiche capirono che la normale promozione non funzionava più e che questo meccanismo dei talent, che abbiamo importato dall’estero, era più remunerativo. Bisognerebbe trovare un modo per spezzare questo sodalizio.

Tra le case discografiche e i talent show, certo. Lo sviluppo progressivo della tecnologia ci ha portati ad una sedentarietà che ci è piaciuta e che è stata accentuata dal Covid. Ci siamo impigriti e abbiamo modificato i nostri comportamenti, diventando dei consumatori da divano. Questo vale per la musica, ma anche per gli altri aspetti delle nostre vite.

Abbiamo un atteggiamento bulimico, ma statico.

Sarebbe preoccupante se la questa situazione di immobilismo perdurasse anche dopo la fine della pandemia. Un’altra piaga che ci colpisce in questo periodo è quella del politically correct. In che modo, secondo te, sta influenzando il mondo dell’arte in generale?

Trovo che il politically correct stia sfociando in un perbenismo che non ci appartiene, perché in passato eravamo molto più liberi di esprimerci rispetto ad adesso. Vi faccio un esempio: in tutto il mio disco c’è solo una parolaccia. Nel momento in cui viene caricato un album su una piattaforma di streaming, automaticamente vengono analizzati i testi e, se viene rivelato del turpiloquio, scatta il bollino ‘testi espliciti’. Lo trovo assurdo, visto che in questo modo si vanno a mettere sullo stesso piano le mie canzoni, che non sono affatto scurrili, e, ad esempio, i testi violenti di alcuni trapper.

Siamo vittime di algoritmi e come società stiamo regredendo. Anziché abbattere dei muri, li abbiamo ricostruiti.

Esatto. Stiamo vivendo un inferno, da questo punto di vista.

Cambiando argomento, vuoi parlarci dei videoclip dei tuoi tre singoli (Polvere, Quello che non Luccica e Il Grande Dittatore)?

I video sono nati con l’idea di raccontare una storia, specialmente i primi due. Per il video di Polvere mi sono affidato ad un regista di cortometraggi con cui avevo già lavorato in passato. Volevo creare una situazione distopica, mostrando due ragazze che fuggono da una luce rossa, che rappresenta il male. Si parla di un’epidemia, anche se il video è uscito il 14 Febbraio 2020 e quindi è stato un po’ premonitore. Quello Che Non Luccica, invece, è nato da un’idea di Manuel Maccario, un regista di Asti. Il protagonista del video è un mimo, un urlatore silenzioso, che gira per la città incrociando vari personaggi, tutti appartenenti a categorie un po’ emarginate dalla società. L’epilogo della storia, per ognuno di loro, è il medesimo. La loro rivincita sta nell’aver trovato ciascuno la propria dimensione; il mimo si lascia andare ad una risata seduto sulla poltrona di un cinema. La canzone parla della malattia dei social network, del non poter vivere senza lo smartphone.

Siamo diventati schiavi della tecnologia e dei telefonini in particolar modo.

Gli smartphone sono uno strumento che dovrebbe unirci, ma che in realtà ci divide. Nel brano dico proprio “siamo sempre più connessi, più visibili del sole, siamo tanto più vicini, quanto distanti”. Ritorna il discorso sulla comodità di stare sul divano a godersi la musica in streaming, sul vivere ogni esperienza attraverso la tecnologia, anziché in prima persona.

Fino a qualche anno fa, se volevi ascoltare della musica, uscivi di casa e andavi a comprare un cd, lasciandoti consigliare dal venditore o affidandoti alle recensioni delle riviste di settore.

Pensiamo addirittura al modo in cui è nata la musica, partendo dalle sue radici:
esisteva solo e soltanto nella sua dimensione live, era volatile e non rimaneva impressa da nessuna parte. Se volevi ascoltare della musica classica o jazz, potevi soltanto andare ad un concerto. Chiaramente poi sono nati i supporti, i vinili, ma il rapporto con la musica era comunque diverso. Era reale. La musica non è tangibile come un dipinto. È un rapporto di passione. Forse è proprio questo che manca adesso, la passione. Mi ricordo che da piccolo, quando scoprivo un gruppo nuovo che mi piaceva, andavo subito a comprarne tutta la discografia, andavo a leggere più informazioni possibili su quella band, mi appassionavo veramente.

Scarseggia la passione, ma anche la curiosità. Speriamo che i nostri lettori possano incuriosirsi ed appassionarsi alla tua musica. Grazie mille ZEDR.

Grazie a voi.

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