Articolo a cura di Stefania Milani
Il 22 luglio sono andata al concerto di Alice Cooper senza l’intenzione di recensirlo, vista la copertura data ai concerti italiani dai principali siti.
Era il mio primo evento dopo il ritorno a Cardiff, dopo una parentesi italiana, e doveva rappresentare la calma dopo il roboante passaggio in città degli Oasis e, lo stesso weekend, il concerto d’addio dei Black Sabbath, poco più in là, a Birmingham.
Certo non mi aspettavo che la serata sarebbe diventata così importante.
Raggiunta l’arena, ho preso il mio posto in platea – sedie numerate, non standing – e ho subito notato persone con la maglietta del farewell concert del 6 luglio, con impressi i nomi di tutte le band di livello incredibile che avevano partecipato.
Nemmeno il tempo di abbassare lo sguardo ed estrarre il cellulare, ed è comparsa la notizia della morte di Ozzy Osbourne su tutti i feed. I vicini di posto si sono uniti, increduli, nella lettura dei titoli. Da lì, il concerto ha assunto tutto un altro significato.
Ero lì, tra i fan che solo due settimane prima avevano omaggiato una leggenda del metal: la costernazione era palpabile in sala.
La band di apertura, i Bobbie Dazzle – peraltro originari di Birmingham – ha riportato in vita atmosfere anni ’70, tra Suzi Quatro e David Bowie, ma a tratti mi hanno ricordato anche i Boney M., per movenze e colori.
Hanno senza dubbio acceso interesse e curiosità con sonorità vivaci e accattivanti, proponendo brani dal loro album Fandabidozi.
Sono stati loro a lanciare il primo omaggio a Ozzy, dichiarando l’intenzione di suonare con ancora più convinzione in suo onore.
Poi è stata la volta di Alice Cooper.
Posso solo confermare ciò che già sappiamo sul suo show: non è solo un concerto musicale, ma un vero spettacolo teatrale, a metà tra musical dark e horror, con una narrazione che segue episodi diversi fino alla decapitazione e discesa agli inferi del protagonista.
Da appassionata di musical del West End (li ho visti quasi tutti), posso dire che questo è senza dubbio il concerto rock-metal che più si avvicina al genere, con un’interpretazione non solo musicale ma anche recitativa, soprattutto nella scena della ghigliottina, che mi ha evocato suggestioni tra Les Misérables e Il Fantasma dell’Opera.
Da un lato, ci viene offerto uno spettacolo che ripaga il prezzo del biglietto, con molteplici stimoli artistici; dall’altro, lascia poco spazio all’improvvisazione o a eventuali cambi di scaletta.
Ed è qui che si è creato l’impasse: l’omaggio tanto atteso a Ozzy Osbourne non arrivava mai, in una sequenza serrata di brani che non ammette battute, parlato, né tantomeno cover dell’ultimo minuto.
Il mormorio della sala è cresciuto fino a qualche fischio sul finale, accompagnato da un coro abbozzato, “Ozzy, Ozzy”, quasi a volerlo ricordare a chi stava sul palco.
L’imbarazzo è stato infine sciolto da Alice Cooper stesso, che ha chiuso augurando al collega una sentita buonanotte, esorcizzando il trapasso nell’immagine di un riposo liberatorio.
Al di là degli accadimenti, che hanno reso la serata surreale – così come era surreale trovarsi lì proprio in quel momento – voglio evidenziare un aspetto di Alice Cooper che, in un mondo dove la mediocrità sembra regnare sovrana, rompe i canoni della sottomissione e della visibilità tutta orientata al frontman.
Mentre lui canta e recita da professionista esperto, consapevole di non dover più dimostrare nulla, si circonda di una band all-stars che è spettacolo nello spettacolo: assoli travolgenti, stacchi di batteria da urlo, momenti di luce e gloria per tutti.
Non è il risultato di un singolo protagonista e dei suoi gregari, ma di un insieme stellare che brilla proprio perché ogni elemento viene messo in risalto. Non semplici frazioni, né sottrazioni causate dall’oscuramento di talenti per non far sfigurare chi è meno dotato.
Impossibile non citare Nita Strauss e la sua performance infuocata: tecnica impeccabile, presenza scenica magnetica, energia pura. Non a caso è stata introdotta come “Sua Maestà” dalle stesse parole del Maestro.
Sul palco di Alice Cooper non c’è paura di eccellere.
Il suo esempio dovrebbe segnare la strada e accendere un lume su quel sentiero sterrato dove tante giovani generazioni – ideali figliocci e nipoti – sembrano perdersi in un’industria confusa, che prende ma non dà, che non innova, non crea avanguardia, non si mette al servizio della musica ma la usa per vantaggi personali.
Una riflessione che oggi si fa urgente. Lo dobbiamo a lui, a Ozzy, e a tutti i loro eccellenti colleghi, affinché con la loro generazione non vada perduto l’incredibile patrimonio che hanno creato.
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