Coroner: recensione di Dissonance Theory

Coroner

Dissonance Theory

Century Media Records

17 ottobre 2025

genere: progressive metal, thrash metal

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Recensione a cura di Marco Calvarese

Non salterò sul carro del vincitore. Non inizierò, a 54 anni, a piegarmi al pensiero maggioritario. È da una vita che sento parlare dei Coroner e del loro thrash iper-tecnico, o di progressive thrash, ma io non mi piego: la trovo una commistione innaturale.

Lo spirito del thrash è emozione, rabbia, ribellione, immediatezza; è un pugno nello stomaco, è velocità distorta che fa la scia al punk dei primordi. Che c’azzecca con il progressive riflessivo, articolato, quasi intimista, che ricama, rallenta, accelera e frena come una macchina nel traffico dei pensieri, senza mai scatenare gambe e testa?

D’accordo, li ho ascoltati, di nascosto, in camera, da ragazzo. Ne ho perso le tracce, quasi con sollievo, nel timore di esserne contaminato. Poi li ho visti dal vivo e nessuno sappia che mi sono ritrovato ad inneggiare il loro nome felice come un bambino: che resti tra noi.

Però adesso si ripresentano con un nuovo album, dopo più di trent’anni, e con un batterista nuovo. Che Dissonance Theory (solo il loro sesto album: una trovata come un’altra per diventare una band di culto, ma io non abbocco) contenga qualche elemento di novità? Vabbè, una chance gliela diamo, dai. Giusto per ingannare la noia del viaggio di ritorno dal mio ultimo concerto, non di più: del resto, già la cover, quei filamenti di DNA su sfondo nero, mi mette ansia. Tutto fuorché thrash metal, mi dico.

In verità, il sentore che io mi stia sbagliando l’ho avuto appena inforcate le cuffie, quando l’intro Oxymoron, carico di synth ed effetti, mi ha spalancato le porte della claustrofobia. Consequence, invece, l’ho odiata fin dalle prime note: ma che cos’è questa base ritmica thrash così coinvolgente, come la si può arrangiare con una chitarra tanto fusion e progressive? Come si spiega che si incastri tutto alla perfezione?

Quel cantato graffiante, sarcastico, pressoché monocorde, come fa a piacermi e sembrarmi l’unico possibile? Come fanno tre soli strumenti a riempire il suono in modo così completo? Sarà quella piovra di Rapacchietti che martella la doppia cassa in modo inesauribile mentre con le mani dipinge un quadro astratto fatto di fill improbabili e controtempi?

Quando, dopo un assolo classicheggiante, i tre artisti si lanciano in un fraseggio che non saprei definire altro che jazz, rimango semplicemente di stucco. E non crediate che Consequence sia il mio brano preferito: nemmeno lontanamente. Ma era indispensabile dilungarmi adesso per farvi capire il mio stupore infastidito, perché d’ora in poi mi immergerò in un mondo alieno, fatto di angoli non geometrici, di asimmetrie e dissonanze che, invece di condurmi alla fuga o alla follia, come un Lovecraft qualsiasi, mi fanno scatenare e riflettere.

Già in Sacrificial Lamb fatico a restare fermo al mio posto, perché la sensazione di volare ancora più in alto è forte: qui i nostri tre chef mescolano i loro segreti in un modo completamente diverso. Nel bel mezzo di un’apertura e chiusura quasi in stile Sepultura, sviluppano un’opera in due atti: il primo thrash reso atmosferico con trovate tecniche fuori scala (tipo andare tutti e tre controtempo), il secondo più marcatamente prog, contenente un assolo che ha un non so che di floydiano ed è semplicemente uno dei più belli che io abbia mai ascoltato.

Boh, io sono senza parole, ma è meglio così, perché da qui, una volta superate le lame di luce che mi hanno trafitto, inizia un viaggio fatto di mille sfumature di colori attraverso la dimensione del suono.

Fuori metafora, Royce e soci non fanno che mescolare, in proporzioni sempre diverse, gli ingredienti che ci hanno fatto assaggiare finora, regalandoci altre sette pietanze gourmet da leccarsi i baffi, aggiungendo qua e là dosi generose di effettistica che amplificano ulteriormente lo spread emotivo del platter.

Succede, allora, che io scapocci furiosamente ascoltando Crisium Bound, dove il riffing, il palm muting e i tempi mi mandano ai matti (sugli assoli di Vetterli nemmeno spendo più una parola), per non parlare della tritasassi Simmetry, dove il ricorrente riff vagamente stoner si sposa con rallentamenti e ripartenze esaltanti.

Come hanno fatto questi tre alchimisti ad entrarmi sottopelle e a miscelare proposte sonore che non mi appartengono, generando invece quanto di più vicino al mio essere? “Iste ego sum”, mi risponde Royce direttamente nel testo.

Ora mi piazzano uno slow per riprendere fiato e cadono nel banale, mi dico io. E invece è proprio hic et nunc che si aprono letteralmente le porte di una dimensione a me estranea, e finisco per chiedermi cosa sia The Law, se non una sorta di space-fusion-thrash, e come diavolo faccia Diego Rapacchietti a generare quelle disparità e quegli arrangiamenti tra percussioni: “I am the law”, chiosa, a ragion veduta, sardonicamente Ron.

Sembra l’inizio di una traversata gravida di tormenti, la colonna sonora di un fuggiasco solitario tra paludi in cui i piedi affondano fin quasi alla paralisi e corse a perdifiato verso mete incoffessabili: Transparent Eye disorienta, rallenta fino al parossismo, fin quasi a fermare il cuore e poi trascina, riemerge, esalta, apre la strada verso la gloria della splendida e ritmata Trinity, un ponte perfetto tra il prog dilagante dei brani precedenti e l’esplosione furibonda e finalmente lineare di Renewal: quella improvvisa sassata in pieno volto, inaspettata e del tutto necessaria.

E quando, in chiusura, sti tre maledetti mi piazzano un assolo Hammond nel bel mezzo di Prolonging, li mando definitivamente al diavolo: questi fanno un po’ come cazzo gli pare, solo perché sono artisti di livello superiore; mi hanno preso per la barba (non trovando capelli) e trascinato in un viaggio onirico dove le tre dimensioni perdono ogni significato, mi hanno mostrato le mille sfumature che corrono tra energia e massa einsteiniane e poi lasciato steso sul sedile del mio treno.

In fondo, la maturità non è altro che la capacità di incanalare la rabbia antisociale in un flusso di pensieri analitici, da cui poi genera l’azione mirata e compiuta, il prodotto finito, completo, perfetto. Proprio come Dissonance Theory, che già dal titolo mi dava l’orticaria e che invece è diventato il mio album dell’anno. Quanto odio cambiare idea.

Tracklist:

1. Oxymoron 2. Consequence 3. Sacrificial Lamb 4. Crisium Bound 5. Symmetry 6. The Law 7. Transparent Eye 8. Trinity 9. Renewal 10. Prolonging

Lineup:

Ron “Royce” Broder: voce e basso
Tommy Vetterli: chitarra
Diego Rapacchietti: batteria

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