Destruction
Birth of malice
Napalm Records
7 marzo 2025
genere: thrash metal, speed metal, power-thrash
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Recensione a cura di Marco Calvarese
Welcome back, thrash metal! Questo è il mio grido liberatorio, perché i fondamentali Destruction sono di nuovo tra noi con una bordata di fresco, sano e violento metal teutonico di cui personalmente sentivo l’urgenza.
Giunti, ormai, con Birth Of Malice, alla loro sedicesima fatica, i Destruction non hanno mai lasciato a lungo i fan a bocca asciutta: eccoli, infatti, tornare alla carica dopo meno di tre anni, preceduti da un discreto battage, con una sgargiante copertina e una produzione perfetta. Del resto, Napalm Records è sinonimo di garanzia.
Da non perdere, mi son detto. Cosa aspettarmi da questi thrasher old boys, lo so già: non un nuovo Eternal Devastation o The Antichrist, ma un disco senz’altro genuino, tirato e ben curato, violento al punto giusto, ma pur sempre con qualche sfumatura fresca e innovativa.
Rispetto al già ottimo precedente lavoro, sento una band fedele a se stessa ma niente affatto monotona: la solita voglia di spaccare il mondo, zero compromessi, melodie semplici e spesso stese sui riff (anche per mascherare l’estensione limitata di Shmier), ritmi a tratti sostenuti fino al parossismo speed, tanta cruccaggine thrash, tante similitudini concettuali e persino strutturali (come nel caso di Diabolical, preludio melodico, prima parte tiratissima, seconda più ragionata, cover finale), ma con un tasso di malignità e nichilismo superiori.
Se vi limiterete ad un paio di ascolti superficiali, non noterete nessuna novità di rilievo, eppure io qualche correzione di rotta l’ho colta. Intanto, un basso ad alti ottani pompato a pressione, che si erge a protagonista a più riprese e insinua un tocco puramente scary su tutta la linea, raggiungendo il culmine nello slow A.N.G.S.T., un po’ sabbathiano, un po’ metallica, ma anche nei favolosi riff di Scumbag Human Race, singolo che ho letteralmente adorato.
Poi le chitarre: mentre tre anni fa mi convinsi che Gary Holt fosse il nume tutelare dei Destruction, oggi ci vedo un po’ più (suggestione finché vi pare) Derek Tailer, abbinato a più profonde incursioni armoniche in territorio german-true-metal. Riffing mai banali, e assoli in cui si colgono frequenti “inchini” alla scena power, assicurano un valore aggiunto all’opera e culminano in una riuscitissima interpretazione di Fast As A Shark, cavallo di battaglia dei connazionali Accept.
Dopo diversi ascolti, ho la sensazione viva di essermi lasciato trasportare dai Destruction in un viaggio attraverso tutto il loro linguaggio musicale, nel precipizio del loro accogliente inferno, tra le più svariate influenze: dagli Helloween (come non immaginare Kay Hansen dietro le quinte di Cyber Warfare?) ai padri del power metal d’oltremanica, passando per il gotha del thrash d’oltreoceano, per poi ripiegare verso una riflessione dolorosa e rabbiosa sul nostro tempo. Infine, eccoli riemergere dalle proprie ceneri come un’araba fenice e rivendicare la propria natura furibonda nell’atto conclusivo.
Nonostante il breve ma diabolico intro indossi i panni della title-track, la vera opener è l’eponimo Destruction, che ha nel titolo il suo destino e non può che essere una violenta mazzata. Dopodiché, in rapida successione, prende forma lo schieramento della cavalleria: Cyber Warfare, No Kings, No Masters e la già citata, feroce hit Scumbag Human Race. Una sequenza devastante, da corsa senza freni che tramortirebbe anche un bisonte e che ho mandato avanti e indietro nel mio lettore per due settimane, prima di decidermi a passare oltre.
Con Gods Of Gore si scivola in una fase decisamente più ragionata e sarebbe un peccato se la cosa facesse scemare la vostra attenzione, perché è esattamente nel mezzo di questo episodio che emergono, forti e chiare, le influenze power della band, con un riff vagamente Tipton e una cavalcata british.
D’accordo, forse c’è un po’ di approssimazione nella scelta delle linee vocali, fin qui perfette, ma va detto, a difesa del “b-side” dell’album, che non c’è un solo brano che rischi di annoiare: anche dove cala un po’ l’ispirazione, come in The Dealer Of Death, l’interesse è tenuto vivo da certe soluzioni che mi rimandano alle scelte classicheggianti e darkeggianti degli ultimi Overkill, nonché da azzeccate melodie vocali nel refrain.
Formula riproposta con discreto successo anche nello slow dal ritornello ruffiano Evil Never Sleeps, o nella intrigante Chains of sorrow, per un complessivo primato melodico, nella seconda parte del platter, che può spiazzare, dopo la furia devastatrice dei primi episodi, ma credetemi non stona e sembra strizzare l’occhio all’ultima fase dei compatrioti Kreator.
Però il messaggio che giunge dal finale dell’opera è forte e chiaro, orgoglioso quanto l’autocelebrazione posta in apertura: noi siamo i Destruction, alfieri del thrash tedesco, e a questo punto della nostra vita possiamo anche rallentare un po’, possiamo aggiustare il tiro, ma siamo germani e non arretriamo di un centimetro.
È questa – mi dico – l’eredità di Shmier e soci, mentre la furia di Greed e il già citato, esplosivo omaggio ai seminali Accept mi sparano nelle orecchie e nelle vene dosi generose di acciaio, e per questo sono fiero di loro. Certo, se la violenza creativa della prima parte di Birth Of Malice avesse allungato la sua benevola mano fino al dodicesimo brano, staremmo ancora gridando al miracolo, ma forse saremmo in un’altra epoca. Va bene così, ragazzi, ora non fatevi aspettare troppo a lungo: vi si ama così come siete.
Tracklist:
1. Birth of Malice (intro)
2. Destruction
3. Cyber Warfare
4. No Kings – No Masters
5. Scumbag Human Race
6. God of Gore
7. A.N.G.S.T.
8. Dealer of Death
9. Evil Never Sleeps
10. Chains of Sorrow
11. Greed
12. Fast As A Shark (Accept cover)
Lineup :
Schmier – basso, voce
Randy Black – batteria
Damir Eskic – chitarra
Martin Furia – chitarra
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