Franco Battiato: recensione di Patriots

Recensione a cura di Chiara Profili

Siamo nel 1980, quando un trentacinquenne Franco Battiato comincia a riscuotere i primi successi commerciali dopo ben otto anni di attività e nove album in studio.

Patriots arriva dopo un lungo periodo di sperimentazioni sonore, di dischi fuori dagli schemi, di avanguardia futurista, soprattutto se consideriamo il contesto degli anni ’70 italiani, suddivisi tra Sanremo, i cantautori introspettivi e quelli dediti alla battaglia proletaria.

Anche a Battiato interessano i temi sociali, non possiamo negarlo, ma è un uomo talmente curioso che non riesce a limitare le proprie vedute ai confini italiani. Le sue canzoni sono cartoline dal mondo, fotografie di popoli e culture spesso a noi lontanissime.

Ed è con questa logica che si apre Patriots, con un brevissimo parlato in arabo all’inizio della prima traccia, Up Patriots to Arms.

Il titolo in inglese, in una nazione dove ancora oggi a stento si conosce l’italiano, mette già in risalto la voglia di Battiato di allargare i propri orizzonti, quantomeno in maniera ideale, perché sappiamo quanto il cantautore rimarrà legato alla sua terra, la Sicilia.

Il brano, ripreso nel 2011 dai Subsonica, in collaborazione proprio col Maestro, è un preludio a quelli che saranno i grandi successi contenuti ne La Voce del Padrone, dell’anno seguente.

“La musica contemporanea mi butta giù”: pensando al 1980, possiamo affermare che ogni epoca abbia avuto la sua musica spazzatura e possiamo immaginare che per uno come Battiato, così avanti artisticamente, Su di Noi di Pupo potesse essere un po’ come la nostra Soldi di Mahmood.

Però, caro Franco, nel 1980 uscivano dischi come Dalla, Nero a Metà di Pino Daniele, Sono Solo Canzonette di Bennato, Colpa d’Alfredo, Una Giornata Uggiosa di Battisti e tanti altri ottimi lavori, da Ivan Graziani, a Pierangelo Bertoli, dalle Orme alla PFM.

Comunque quest’aspra critica nei confronti di ciò che lo circonda non sarà un episodio isolato, nella scrittura di Battiato.

“Un tempo si uccidevano i cristiani
E poi questi ultimi con la scusa delle streghe
Ammazzavano i pagani, Ave Maria

E perché il sol dell’avvenire splenda ancora sulla terra
Facciamo un po’ di largo con un’altra guerra”.

Oltre al testo, notevoli anche il giro di chitarra di Alberto Radius e la linea di basso: un’altra perla della produzione del Maestro.

Per non essere prolissi, passiamo subito al lato B di questo breve, ma intenso, Long Playing di soli 28 minuti e 42 di durata, che si apre con la celebre Prospettiva Nevski, un capolavoro di raffinatezza, penetrante come l’inverno russo.

Ancora una volta ci troviamo in un bellissimo quadro ambientato all’estero, un acquerello della San Pietroburgo leninista post rivoluzione, nella quale fiorivano le arti, sotto lo stretto controllo bolscevico.

Riprendiamo l’aereo e viaggiamo verso il Medio Oriente con Arabian Song, dove troviamo un Battiato che si cimenta nel canto proprio in lingua araba, proseguendo poi con la vivace Frammenti: un tripudio di suoni e di citazioni letterarie.

Ciò che colpisce di questo disco, e in larga parte dell’intera produzione di Battiato, è la qualità degli arrangiamenti, curati insieme all’esperto violinista, e fido collaboratore, Giusto Pio. Un sodalizio quanto mai azzeccato quello tra i due, che proseguirà per tutto il quinquennio successivo, per poi trasformarsi in un rapporto di stima e amicizia.

A livello strumentale siamo davanti ad un disco davvero ricco, con sintetizzatori, tastiere, organi, violini e percussioni di vario genere, oltre ai classici pianoforte, basso e chitarra.

A metà tra la produzione prog/rock sperimentale degli anni ’70 e i successi più pop degli ’80, Patriots prosegue sul cammino intrapreso da L’Era del Cinghiale Bianco e fa da ponte tra due decenni, mostrandoci l’alba dentro l’imbrunire.

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