Grave Digger: recensione di Bone Collector

Grave Digger

Bone Collector

Reigning Phoenix Music – ROAR

17 gennaio 2025

genere: true metal, speed metal, power metal, hard&heavy

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Recensione a cura di Marco Calvarese

Mamma mia ragazzi, sulla scia dello scorso anno ecco un altro comeback dei più nostalgici che si possa immaginare. Certo i tedeschi Grave Digger non sono mai stata una band che si fa desiderare, anzi: con Bone Collector siamo al ventiduesimo album di una carriera ormai ultra-quarantennale, con una prolificità invidiabile ma che non sempre ha fatto rima con qualità.

Invece adesso vi propongo qualcosa che scalda il cuore e che non deluderà le attese dei true metalheads. Un album genuino, inadatto a chi cerca novità, ma sufficiente a saziare la fame di heavy metal che, secondo me, non deve mai venir meno.

Intendiamoci: pregi e difetti degli scava-fosse sono sempre lì sul piatto, prendere o lasciare. Tuttavia, in questo nuovo lavoro in studio si avverte qualche folata di freschezza, probabilmente grazie al reclutamento di Tobias Kersting alla chitarra, in grado di rivitalizzare una proposta musicale divenuta piuttosto stagnante.

Le tematiche abbandonano il versante storico-messianico per riabbracciare atmosfere noir, più tetre, con l’intento di spingere il songwriting oltre i soliti chorus ripetitivi: una spruzzata di doom a spezzare e appesantire il solito speed e il cocktail ad alta gradazione alcolica è servito.

Però vi do un consiglio: non siate superficiali. Non date per scontato ciò che ascolterete e concedete a questo collezionista di ossa più di un giro sul piatto: finirete per muovervi al ritmo della musica e godere di ciò che vi arriva dalle casse ogni volta un po’ di più, e questo è già un giudizio di merito. Qualche passaggio vi sembrerà più sottotono, ma nel complesso i nuovi Grave Digger scorrono che è un piacere.

In certi frangenti viene addirittura voglia di cantare insieme a Chris Boltendahl, encomiabile nella sua unicità abrasiva e nel piegare la musica alle sue esigenze vocali. Al netto dei suoi limiti in fatto di estensione e songwriting, specie nei ritornelli, quando dovrebbe far decollare i brani, Boltendahl avrà sempre il suo perché, soprattutto perché supportato alla perfezione da Tobias Kersting, artefice di un’ottima prestazione come ascia.

Ora, immaginate un sound squisitamente Grave Digger: distorsione estrema, compressione minima, ritmi incalzanti e parecchie sovraincisioni, a cui si aggiungono un riffing asciutto, sferzante ed eclettico e un crescendo di assoli a tema. La miscela che ne viene fuori è il prodotto giusto da sparare nelle casse durante una corsa in macchina oppure dopo aver bevuto litri di birra in un fumoso e sudaticcio locale della Vestfalia o del Wyoming (scegliete voi): sporco, cupo quanto basta e degno di riportare in auge il buon vecchio metallo pesante.

Emergono dunque una sincerità e una voglia di fare musica che non sentivo almeno dai tempi di Return Of The Reaper. Se in apertura la titletrack mostra qualche traccia di ingenuità nonostante tutta l’energia del doppio pedale e un bridge convincente, il riff ad alti ottani di The Rich, The Poor and The Dying fuga qualsiasi dubbio in merito: finalmente si comincia a correre sul serio, con un’apertura strumentale che ha lo stesso effetto dell’accelerazione di una Lamborghini. Mi ritrovo senza fiato. A questo punto non c’è più respiro tra un brano e l’altro: Kingdom Of Skulls accentua la vena dark dell’opera pur risultando un po’ slegata, a mio parere, e di minor impatto, come una marcia scalata fuori tempo.

La ripresa, però, è da urlo: The Devil’s Serenade è uno degli episodi più riusciti del platter, combinando una linea vocale godibile (quasi che Lemmy possa apparire da un momento all’altro), un bridge perfetto e un ritornello ben armonizzato. Comincia a farsi strada nella mia zucca l’idea che i Grave Digger diano il meglio di sé in chiave hard&heavy, sensazione che tornerà anche in seguito. Anche Killing is My Pleasure è un elemento fatto a regola d’arte, arriva come una rasoiata alla gola, tagliente e sarcastica come il serial a cui si ispira. Tutte le canzoni crescono ascolto dopo ascolto, il che non è affatto scontato.

È il momento di due macigni come Mirror Of Hate e (nomen omen) Riders Of Doom: si fanno largo accordi di sapore thrash e un controcanto in growl decisamente coinvolgenti. Si torna a correre con la trascinante Made Of Madness, per poi ripiegare sul più classico power di Graveyard Kings, con ritornelli talmente riusciti che viene voglia di cantarli a squarciagola sotto il palco, sebbene sia consapevole che ci siano cantanti tecnicamente più dotati.

Il segreto di queste canzoni risiede proprio nella loro semplicità: un contenitore in vimini all’interno del quale i nostri becchini riescono a infilare ottimi assoli e atmosfere gotiche, restituendoci un prodotto vivo, caldo e fumante. E poco importa se Forever Evil and Buried Alive suoni leggermente scontata e ridondante, poiché riesce a tenere il ritmo e a scorrere senza far danni.

All’ultima curva ci attende Whispers Of The Damned, una quasi-ballad che sembra scritta a quattro mani da Iron Maiden e Metallica e che, nelle mie fantasie sonore, regalerei al pathos di Blaze, capace di esprimere quella genuinità che appartiene ai teutonici Grave Digger e al loro Bone Collector: davvero uno dei modi migliori per saziare la nostra fame di metallo vero.

facebook/gravedigger

Tracklist:

1. Bone Collector 2. The Rich, the Poor, the Dying 3. Kingdom of Skulls 4. The Devil’s Serenade 5. Killing Is My Pleasure 6. Mirror of Hate 7. Riders of Doom 8. Made of Madness 9. Graveyard Kings 10. Forever Evil and Buried Alive 11. Whispers of the Damned

Line-up:

Chris Boltendahl – voce
Tobias “Tobi” Kersting – chitarra
Jens Becker – basso
Marcus Kniep – batteria

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