Iggy Pop: recensione di Every Loser

Iggy Pop

Every Loser

Atlantic Records, Gold Tooth Records

6 gennaio 2023

genere, garage punk, hard rock, ballad noir, spoken word, post-punk

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Recensione a cura di Andrea Musumeci

“Quando Maria finì la canzone Joe era proprio commosso. Affermò che tempi come quelli di una volta non c’erano più, né buona musica come quella del povero Balfe, checché ne dicesse la gente.”

(James Joyce, Gente di Dublino, 1914)

A distanza di tre anni dal precedente album Free, e a più di 50 dal debutto assoluto coi suoi The Stooges, James Newell Osterberg Jr. in arte Iggy Pop manda alle stampe il suo diciannovesimo lavoro solista intitolato Every Loser, edito per Atlantic Records e anticipato dall’uscita dei singoli Frenzy e Strung Out Johnny.

Per la stesura di questo ennesimo capitolo discografico, sotto l’invisibile aura protettiva delle sue anime guida David Bowie e Lou Reed, il camaleontico, carismatico ed eccentrico Iggy Pop si è avvalso di un cast stellare di musicisti già navigati nella scena rock, che lui stesso ha visto crescere sotto l’aspetto artistico: Andrew Watt, in veste di produttore e chitarrista (che di recente ha collaborato con un altro mostro sacro del musica rock come Ozzy Osbourne nel suo Ordinary Man), Duff McKagan, il compianto Taylor Hawkins, Josh Klinghoffer, Stone Gossard, Dave Navarro, Travis Barker, Eric Avery e Chris Chaney, oltre all’artwork realizzato da Raymond Pettibon.

Con oltre mezzo secolo di carriera sulle spalle – da “iguana del rock” e “padrino del punk” – il veterano frontman statunitense delinea, ancora una volta, il profilo del perdente; di tutti quelli emarginati con l’etichetta di alternativi e schiacciati dal peso delle aspettative di una società in cui la forbice tra vincenti e sconfitti è sempre più ampia e polarizzante, dove il valore degli individui viene pesato sulla bilancia effimera della popolarità mediatica.

Un’ode ai cosiddetti “losers” raccolta in undici canzoni, che hanno come protagonisti i reietti del banchetto della vita, attraverso le quali Iggy Pop mette in evidenza la figura simbolica di quel perdente che risiede in ognuno di noi: quando facendo infiammare l’ugola sulle temperature abrasive e adrenaliniche di Frenzy, Neo Punk e Modern Day Rip Off, quando rievocando certo post-punk clashiano mischiato al rock glammoso degli Hanoi Rocks negli episodi All The Way Down e Comments, quando con la decadente dolcezza di ballad melodiche come New Atlantis (dedica amorosa alla sua città adottiva Miami), quando sbattendoci in faccia quell’anthemico Fuck The Regency (contro il music business contemporaneo e qualsiasi modello di sovranità), quando con quello spoken word baritonale e consumato dai segni del proprio vissuto nell’interludio My Animus (parecchio Arab Strap) e in Morning Show, che nel suo andamento sonoro rievoca Viva Forever delle Spice Girls. E allora sarebbe il caso di dire: “Viva Iggy Pop, Forever”.

C’è chi ha abbracciato l’identità di loser, conscio di esserlo e di doverci convivere, con quella sensazione intima e premonitrice di sconfitta divenuta, poi, ragione di vita e altresì condizione da predestinati. Senza la forzata necessità di ostentare irriverenza anticonformista, e sebbene nel suo percorso professionale si sia misurato con una vasta gamma di generi musicali, Iggy Pop ha continuato comunque a perseguire fanaticamente la propria natura – romantica, malinconica e nevrotica – e a non tirarsi mai indietro nel corpo a corpo con la cruda realtà: sempre in bilico tra l’uomo e il suo alter ego, perennemente in lotta tra miserie e allegrie, senza maglietta, a torso nudo (al massimo un gilet nero), con quel fisico così gracile, spigoloso, austero, fibroso e modellato dalle rughe del tempo.

Un animale da palco che, folgorato in tempi non sospetti dalle movenze irriverenti del “Re Lucertola”, è riuscito a trasformare quell’irriverenza comunicativa in prototipo e manifesto futurista di qualcos’altro, proiettandosi nel caos anarchico del punk prima del punk, nel post-punk prima del post-punk, nella new wave prima che divenisse un coacervo di contaminazioni eterogenee, e al quale si può anche perdonare qualche scivolata autoreferenziale sui cliché di genere e qualche marchetta con giovani pop-star internazionali. D’altronde, oggigiorno, c’è ancora chi si scandalizza per le pseudo vite spericolate di giovani trapper o per due stelline adesive appiccicate sui capezzoli.

L’indipendenza intellettuale e istintiva di saper mutare pelle in base all’ispirazione del momento, al desiderio di scoprire nuove opportunità creative e soprattutto differenti inclinazioni del proprio mondo interiore: così, mitigando il tutto con l’ironia di chi, in fondo, non ha nulla da perdere, Iggy Pop ha compreso che era questa l’unica via per sentirsi vivi, per rallentare la traiettoria discendente del tramonto e non sprofondare definitivamente nel mare ozioso della saggezza.

Every Loser è un disco concepito alla vecchia maniera, “da ascoltare al volume massimo consentito dal vostro stereo”, come ha dichiarato lo stesso Andrew Watt: un viaggio joyceiano attraverso la memoria, quasi fosse una sorta di testamento biologico del suo passaggio terreno, ma senza alcun erede avente diritto di successione.

Iggy Pop è dunque uno degli ultimi superstiti di quella progenie, quando le avanguardie profumavano ancora di rivoluzione: ha fatto stage diving sull’onda lunga del punk vedendo sfilare, durante cinque decenni e più, tutti i wannabe punk di ogni generazione. Come se non bastasse, ha rinfrescato costantemente la sua idea di musica, allentando di tanto in tanto il nodo stretto con quel dogma composto dai soliti tre accordi eseguiti al fulmicotone, passando con disinvoltura dal rock convenzionale a sonorità completamente trasversali, con gli stessi occhi malinconici, ma ancora in grado di sorprendersi: dalle esplorazioni elettroniche con gli Underworld al desert crooning di Post Pop Depression, dalle cover francesi di Beatles, Edith Piaf e Serge Gainsbourg del suo Aprés ai territori sintetici a tinte folk-latin-jazz di Free, per poi tornare alle origini con Every Loser, a riabbracciare il suo primo amore musicale, l’amore di tutta una vita, in cui il finale sembra ricongiungersi con l’inizio.

Così, Iggy Pop ha cercato di tenere viva la vibrante fiamma del desiderio e mai quella apatica dell’abitudine. E non è così scontato per uno che alla sua età potrebbe godersi la pensione (“my mind is on fire when I retire”) sotto il sole di Miami Beach a sorseggiare margaritas, mentre, invece, è ancora sul pezzo a sventolare cazzo e palle al mondo intero: “got a dick and two balls, that’s more than you all”.

Tracklist:

1. Frenzy

2. Strung Out Johnny

3. New Atlantis

4. Modern Day Rip Off

5. Morning Show

6. The News For Andy

7. Neo Punk

8. All The Way Down

9. Comments

10. My Animus (Interlude)

11. The Regency

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