Labyrinth
In The Vanishing Echoes Of Goodbye
Frontiers Music
24 Gennaio 2025
genere: power metal, speed metal, symphonic metal, progressive metal
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Recensione a cura di Marco Calvarese
A volte, pur orgoglioso della mia formazione musicale e della sensibilità che mi permette di emozionarmi tanto sulle note del true metal quanto del brutal death, sento la mia inadeguatezza e il dovere di recitare il mea culpa.
Uno dei miei peggiori difetti è sempre stato quella della esterofilia, spesso parossistica e quasi pregiudiziale. Tuttavia sto lavorando molto per correggermi e una band dalla classe sopraffina come i Labyrinth, vera eccellenza della scena nostrana, può essere maestra severa e correttiva.
Ci addentriamo, con il loro recentissimo, undicesimo LP, in un territorio, quello del power-speed con note progressive, che fa capo ai migliori Angra: su questo non si discute. E a questa impronta ormai storica, Roberto Tiranti e soci restano fedeli, apportando variazioni tematiche di forte personalità.
Se il precedente (Welcome to The Absurd Circus) si lasciava andare a incursioni AOR o addirittura nel rock seventies, soprattutto nel gusto melodico e in alcuni passaggi sulla sei corde, il nuovissimo In The Vanishing Echoes Of Goodbye alza i ritmi, amplifica la componente sinfonica, sfuma quella progressive e mescola il tutto con il tocco dello chef gourmet, rasentando il capolavoro di genere. Mi cospargo, dunque, il capo di cenere, sollevo fiero lo sgualcito tricolore e vi invito a seguirmi in questa cavalcata commovente.
Welcome Twilight apre l’opera in modo suggestivo e significativo, ponendo subito in primo piano le tastiere di Oleg Smirnoff, elemento il cui protagonismo risalterà nel corso dell’ascolto e che si innesta sul classico speed travolgente con uno strumentale da urlo, prima di lasciare il palcoscenico al fraseggio fra le asce. Opener fantastica, che tra l’altro marca una continuità testuale con l’album precedente fin dalla prima strofa (“after the absurd circus left the town”…).
Continuità sarà una parola d’ordine ricorrente nella composizione del disco: Accept The Changes si apre con un ossessivo riff in tapping che richiama uno dei giri del primo brano e la velocità continua a non dare scampo all’ascoltatore, mentre cori e tastiere sottolineano la drammaticità della narrazione. Tanto nei lyrics, quanto nelle armonie, si ha la percezione di un racconto incalzante, come un libro che inizi a leggere per prendere sonno e invece finisci per divorarlo in una notte, guadagnando il finale al primo albeggiare.
La prima ballad, Out Of Place, molto radiofonica, poggia su un delicato arpeggio finché non cambia lo scenario per una nuova, furiosa accelerazione che sottolinea ed enfatizza la narrazione e mi aiuta a capire che la melodia, elemento dominante e mai banale nella musica dei Labyrinth, è posta al servizio di una trama e mai fine a sé stessa, creando un filo rosso che tiene insieme l’album e l’intero tracciato artistico della band.
Eppure il meglio deve ancora venire, perché At The Rainbow’s End emoziona dalla prima all’ultima nota, valorizzata da un passaggio strumentale in cui la tastiera gioca un ruolo da protagonista con un riff vagamente retró, mentre The Right Side Of This World è semplicemente una perla, forse il brano più squisitamente power dell’album ma con un refrain che conquista dal primo ascolto. Hit dell’anno in vista?
A questo punto, con studiata maestria, veniamo trascinati in sentiero più articolato, labirintico come il logo del gruppo, perché Tiranti e Smirnoff, a mio modesto parere i membri di formazione più progressive dei Labyrinth, si ergono a protagonisti instillando negli episodi seguenti gocce di limpida classe. Parlo in particolare di qualità e songwriting, che rendono corposo e, al contempo, fluido l’ascolto. Roberto Tiranti, pur non avendo l’estensione di André Matos, gode di una perizia tecnica sopraffina e la traduce in melodie e linee vocali mai scontate.
Di conseguenza, la triade che segue, ovvero l’avvolgente semi-ballad The Healing, la fantasmagorica Heading For Nowhere e la title track “in pectore” (il titolo dell’album fa capolino nel refrain) Mass Distraction, è composta dai brani meno immediati ma, forse, più interessanti del platter. Mi occorre dedicare loro almeno tre ascolti, prima che, finalmente, l’emozione mi travolga al punto da strapparmi una lacrima.
Quando i ritmi rallentano, noto emergere sentori “maideniani” e lontani echi Van Halen che scaldano l’anima: zucchero per il mio angolo nostalgico e, ne sono certo, per i palati più raffinati. Di elementi progressive non v’è quasi traccia finché non fanno capolino nella struggente ballad To The Son I Never Had, di impronta prevalentemente opera rock, per poi mescolarsi con sapienza al power nella splendida, ultima traccia Inhuman Race, tanto barocca quanto potente, fino a sciogliersi in quel coro ruffiano che mi invita a cantare come fossi sotto il palco, a fine concerto.
In The Vanishing Echoes Of Goodbye si candida, fin da ora, al ruolo di protagonista del nuovo anno musicale: non ammetto repliche. “Up your flag together with the horns” e correte a procurarvelo, se non l’avete già fatto.
Tracklist:
1.Welcome Twilight 2.Accept The Changes 3.Out Of Place 4.At The Rainbow’s End 5.The Right Side Of This World 6.The Healing 7.Heading For Nowhere 8.Mass Distraction 9.To The Son I Never Had 10.Inhuman Race
Lineup:
Roberto Tiranti – Voce
Andrea Cantarelli – Chitarre
Olaf Thorsen – Chitarre
Oleg Smirnoff – Tastiere
Nik Mazzucconi – Basso
Mattia Peruzzi – Batteria
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