Nel 2019 intervistammo Francesco Utel (intervista), chitarrista dei Le Pietre dei Giganti, in occasione dell’imminente uscita del loro disco di esordio, intitolato Abissi. Questa volta ci confronteremo, invece, con Lorenzo Marsili, cantante e chitarrista della band, nonché collaboratore di Fotografie ROCK, che ci parlerà di Veti e Culti, secondo lavoro in studio, uscito il 22 Febbraio per Overdub Recordings.
Ciao Lorenzo. Cominciamo col ricordare, per chi non avesse letto la precedente intervista o non vi conoscesse, come è nata la band e il perché del nome Le Pietre dei Giganti.
La band nasce più o meno sei anni fa, dall’incontro tra me e il chitarrista Francesco Utel. L’idea dietro al nome era quella di creare un collegamento tra il genere stoner e i grandi gruppi italiani degli anni ’70, il cui moniker era composto da tante parole, come ad esempio Il Banco del Mutuo Soccorso o la Premiata Forneria Marconi. Quei gruppi avevano un fascino unico, dato dal fatto che facevano musica rock, ma con una ricerca approfondita che portava alla mescolanza dei generi.
Avete ripreso da poco l’attività live: com’è stato ritornare sul palco dopo tanto tempo?
È stato bello e traumatico. Vivendo io distante dagli altri membri del gruppo, non abbiamo potuto ritrovarci in sala prove per un anno, tant’è che i brani del disco sono sempre stati provati dagli altri senza la voce; ci siamo rivisti direttamente in studio. Quando siamo tornati sul palco, era da due anni che non suonavamo dal vivo e ci siamo esibiti subito dopo I Boschi Bruciano, che nel 2021 hanno fatto quindici date. Loro sono fortissimi sul palco, hanno una qualità veramente elevata e, a parer mio, diventeranno uno dei gruppi di punta dell’indie alternative italiano. Suonare dopo di loro è stato, quindi, un po’ traumatico. Ma tornare sul palco è stato anche bellissimo ed emozionante. Alla fine, è come andare in bicicletta dopo tanto tempo.
Il riscontro del pubblico è stato positivo?
A Pavia abbiamo trovato un bel pubblico attento e desideroso di ascoltarci. Abbiamo un po’ faticato nel trovare la dimensione ideale in cui presentare le nostre canzoni dal vivo e siamo giunti alla conclusione che, la nostra, è musica che va ascoltata, più che vista e ballata. È un po’ come andare a sentire i Mogwai o gli Isis, ma anche gruppi stoner. La nostra proposta è diversa da quella che può offrire un concerto metal.
Nel vostro primo disco avete attraversato gli Abissi delle emozioni, mentre in Veti e Culti affrontate la metafora della Foresta e quel primitivo bisogno dell’essere umano di dover dipendere da una spiritualità che compensi le non risposte della realtà. Da dove arrivano le tematiche principali di questo lavoro?
Sicuramente questo disco è stato influenzato anche dal percorso che abbiamo fatto al di fuori della musica. Il primo LP arrivava al termine della mia laurea magistrale e, di lì a poco, mi sarei trasferito da Firenze a Trieste. Il secondo album è stato scritto a cavallo della pandemia, ma non è stato influenzato dalla pandemia nelle tematiche, che derivano da riflessioni precedenti a quel periodo; Veti e Culti, piuttosto, abbraccia un filo conduttore , che è quello dell’assenza, che permea soprattutto i brani successivi alla suite delle Foreste. Polvere o Quando l’Ultimo se ne Andrà sono riflessioni sull’assenza a livello umano, l’assenza di affetti, l’impossibilità di avere a che fare con delle relazioni che abbiano un significato profondo e la difficoltà di portarle avanti nel corso della vita. Abbiamo chiuso il disco con un blues che parla proprio di questo: del fatto che tutte le persone a cui siamo legati siano costrette, per inseguire i propri sogni, ad andarsene via dal paesino d’origine, facendo sì che le nostre vite siano piene di relazioni a distanza e che, in un modo o nell’altro, siamo destinati alla solitudine.
Quanto c’è di autobiografico in questi brani?
Il carattere autobiografico lo si trova più nelle bozze delle canzoni, che non nelle versioni finali, però possiamo dire che Francesco Utel è sicuramente presente nella suite delle Foreste, mentre Polvere o Quando l’Ultimo se ne Andrà, come dicevamo prima, sono i brani in cui ho raccontato queste mie riflessioni personali sulla solitudine. Per Piombo e Ohm, invece, è stato fondamentale l’apporto del batterista; sono entrambe la descrizione di una realtà soffocante: Ohm è la rielaborazione di una poesia di Erri De Luca , mentre Piombo è il dipinto di un paesaggio post-bellico, dove troviamo, ancora una volta, l’assenza dell’essere umano.
Il titolo del disco, Veti e Culti, lascia spazio a diverse interpretazioni. Cosa significa per voi?
Io ho insistito per questo titolo, perché innanzitutto mi piaceva il suono delle parole ‘veti’ e ‘culti’ e poi era anche il titolo della canzone, scritta da Francesco, su cui abbiamo discusso di più.
Quindi, in questo, siete come tutte le grandi band: litigate.
Il ‘litigio’ è fondamentale. Io e Francesco siamo complementari, discutiamo, ma ci vogliamo un sacco bene. Ognuno dei due cerca di portare avanti la sua idea e, attraverso questo conflitto, nascono poi i pezzi migliori, perché ci smussiamo gli spigoli a vicenda. Francesco ha un approccio un po’ più poetico, mentre io sono più pragmatico, per quel che riguarda la natura concettuale e testuale dei brani. Per Francesco, la definizione di Veti e Culti sta nella contrapposizione tra ciò che imbriglia i nostri istinti e ciò che invece li celebra. Due manifestazioni spontanee e ancestrali dell’uomo , che vanno in due direzioni diverse, esaltando il carattere di ricerca sonora che tende alla musica tribale. Volevamo che questo disco fosse più ritmato, più primitivo, più africano.
Vi siete sbizzarriti con suoni eterogenei, ricchi, complessi e completi. Com’è stato lavorare con Phil Liar, il vostro producer?
Ci siamo divertiti molto a lavorare con lui, ancor più della prima volta. Sono rimasto veramente molto colpito dal lavoro di Phil, perché ha adottato questa filosofia alla Steve Albini, facendoci registrare basso e batteria insieme, in modo che si percepisse la naturalezza dei suoni. La voce, invece, l’ho registrata in un giorno e mezzo di lavoro, massimo due o tre take per pezzo. Abbiamo registrato tutto il disco in circa quattro giorni.
La ricerca della perfezione maniacale, spesso, non paga. L’imperfezione assume, invece, un valore aggiunto, che dona unicità al lavoro.
Come dice Steve Albini: “Se suoni col metronomo è come se guidassi con i poliziotti alle calcagna”. È innaturale ed è normale che guiderai male.
Parliamo della copertina del disco, ad opera di DEM. Come vi siete messi in contatto con questo artista?
Francesco Nucci, il batterista, era andato a vedere la sua mostra Omonero. In seguito, lo abbiamo contattato, inviandogli i brani di Abissi e chiedendogli di collaborare, poiché apprezzavamo il concept delle sue immagini. Anche a lui era piaciuto molto il nostro lavoro, così siamo rimasti in contatto e abbiamo acquistato due sue fotografie, di cui una appare sulla copertina dell’album. Successivamente, gli abbiamo commissionato la produzione del videoclip di Veti e Culti, nel quale lui ha dato vita alle contrapposizioni tra bianco e nero, tra luce e oscurità presenti nel brano, che parla appunto del rapporto dell’uomo con la sua ombra. Sul finale, tornano i colori, che sono generati proprio dalla luce. Secondo me DEM è stato bravo nel cogliere perfettamente il testo e il mood della canzone, riuscendo a creare un prodotto che fosse comunque al 100% suo.
Il tema dell’ombra lo ritroviamo in tantissime opere, sia musicali, che non. Secondo te perché è così importante?
Penso che ogni artista abbia questo rapporto con la sua interiorità e di conseguenza anche con i suoi demoni interiori; è una condizione che permea qualsiasi tipo di arte, da sempre.
Tornando per un attimo ai testi: quanto è difficile, per voi, scrivere in italiano? Per ragioni di metrica, molti musicisti, soprattutto in ambito rock, preferiscono misurarsi con il più semplice inglese.
Il mio insegnante di chitarra, Andrea Massaria, mi spiegava che ognuno suona in base a come parla. L’italiano è una lingua tendenzialmente aulica, perciò si sposa bene con la musica orchestrale, melodica, lirica. Facendo rock, bisogna riuscire a trovare un modo per darle una dimensione ritmica che funzioni. Noi usiamo tre approcci: il batterista scrive i testi e io li riarrangio cercando di renderli cantabili, mentre il chitarrista tenta, spesso, di scriverli direttamente in italiano, oppure scriviamo la linea melodica in inglese e poi proviamo a farci stare sopra le parole in italiano. Non è facile, ma quando un pezzo funziona è una grande soddisfazione.
Trovare la simbiosi tra musica e parole, in modo che risultino ritmicamente credibili, non è certamente facile. Un altro aspetto che rende questo disco interessante è quello dell’imprevedibilità. Veti e Culti non segue una linea omogenea e questo lo rende interessante e d’impatto. Addirittura, troviamo una tromba, in Foresta III. Chi la suona?
La tromba è stata suonata da Luca Benedetto, il trombettista dei Satoyama, una band di Ivrea, il mio paese d’origine, che vi consiglio caldamente di ascoltare. Hanno appena pubblicato il loro nuovo disco, Sinking Island.
A chi è venuta l’idea di inserire, invece, il flamenco in (Tema) e chi suona quella parte?
La parte la suona Francesco, ma l’idea è stata mia. Quel brano non è stato registrato da Phil, che lo ha solo equalizzato: le parti vocali sono state incise in camera di mio fratello, durante il secondo lockdown, e poi Francesco ha registrato la chitarra al Boomker Studio di Firenze.
Sarà difficile pubblicare un album più bello di Veti e Culti quest’anno.
Vi ringrazio. Veti e Culti è il frutto di un lavoro di due anni, volto alla ricerca dei suoni, delle ritmiche, degli arrangiamenti, delle note giuste e delle parole adatte a sposarsi con tutto il resto. Più che sulla tecnica, abbiamo insistito sulla personalità.
Quali influenze musicali avete trasferito su quest’album, sia consciamente che inconsciamente?
Sono contento di questo disco perché, non avendo cercato di rimanere dentro i confini di un genere preciso, abbiamo potuto inserire di tutto. Ci sento tantissime influenze al suo interno. E poi, dal secondo disco in poi, si può iniziare a dire da dove si trae la propria ispirazione. Comunque, abbiamo capito di essere sulla strada giusta quando, mandando le tracce a Marcello Venditti, ci rispose che gli ricordavamo gli Ulver, uno dei gruppi preferiti di Francesco, il chitarrista. Sono una band talmente eclettica che è impossibile dire di ispirarsi a loro, ma possiamo affermare che, in un certo senso, permeano Veti e Culti. Altri riferimenti li possiamo ricollegare a Mike Patton o a Trent Reznor e perfino ai Pink Floyd, mentre se vogliamo parlare di band italiane mi rifarei a Il Teatro degli Orrori, oltre che ai Verdena.
Come è stato accolto Veti e Culti dal pubblico e dal giornalismo musicale?
Sta andando molto bene, sia dal punto di vista delle recensioni, che di riscontro del pubblico e ne siamo felicissimi. Eravamo pronti anche a non piacere, temevamo un po’ di aver fatto un lavoro troppo dispersivo e invece abbiamo capito, grazie ai primi commenti, di aver fatto la cosa giusta. Di sicuro, eravamo contenti di ciò che avevamo registrato, a prescindere poi dai gusti. Volevamo produrre un album che non si andasse ad incasellare in un genere ben preciso, un po’ come negli anni ’70, quando l’abitudine di mescolare più stili all’interno di un disco rock era abbastanza diffusa.
Siete riusciti perfettamente nel vostro intento. Ancora complimenti per Veti e Culti e grazie a te, Lorenzo, per averci dedicato il tuo tempo.
Grazie a voi!
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