Nirvana: recensione di In Utero

Nirvana

In Utero

Geffen Records

21 settembre 1993

genere: grunge

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Recensione a cura di Andrea Musumeci

21 settembre 1993. Esce In Utero, il terzo e ultimo disco di inediti dei Nirvana.

Stando ai fatti di cronaca, Kurt Cobain avrebbe voluto intitolare l’album I Hate Myself And I Want To Die (titolo quanto mai profetico), ma Krist Novoselic lo convinse a cambiare titolo per non destare troppo scalpore.

Del resto, a destare scalpore, qualche mese prima, nel giugno del 1993, ci aveva già pensato Lorena Bobbit, evirando il marito con un coltello da cucina, per poi gettare via il membro del marito per strada.

In Utero fu l’anticamera dell’epilogo del fenomeno grunge, il testamento biologico di quel grido di dolore di inizio anni ’90, prima del suicidio del suo guru Kurt Cobain nel 1994.

La donna in copertina è stata ideata da Robert Fisher: le ali, come la Nike di Samotracia. Tutto l’artwork è comunque pieno di riferimenti al mondo femminile.

Ma, esattamente, a cosa serve l’utero? Il compito dell’utero è triplice: accoglie l’ovulo fecondato, ne consente lo sviluppo e permette l’espulsione del feto quando la gravidanza giunge al termine.

Ed è stata proprio questa la funzione di In Utero: ha accolto l’ovulo fecondato dalla fusione delle cellule germinali di Bleach e Nevermind, lo ha sviluppato nel suo periodo più fertile fino alla riproduzione, al concepimento.

In Utero si è formato quale organismo vivente con un patrimonio genetico fatto di rabbia, disperazione, malinconia, debolezza, sarcasmo e bipolarismo, cominciato con il genoma grezzo, urticante e oscuro di Bleach e modificato tramite le moderne tecniche di ingegneria genetica di Nevermind.

Insomma, l’età dell’adolescenza era finita e Cobain lo aveva capito già da tempo: Cobain sembrava dirci che c’è un tempo per tutto e che la gioventù è il solo periodo per poter seminare.

La rabbia adolescenziale aveva pagato bene, i losers e i servants avevano avuto la meglio, ma alla fine il divertimento si era trasformato in noia, in qualcosa che sapeva di vecchiaia. Kurt Cobain sapeva di non essere come gli altri, ma poteva tranquillamente far finta di essere come loro.

I portavoce della generazione X sentirono il bisogno interiore di liberarsi dalle false promesse degli anni ’80, per evolversi in qualcosa che desse meno risalto alla tecnica esecutiva dell’heavy metal, a favore di una componente più emozionale, più empatica dell’essere umano, sebbene regnasse un forte sentore di rassegnazione e impotenza nei confronti della società e del futuro. Si stava, dunque, affacciando una nuova era punk no future.

Steve Albini, il produttore di In Utero, e ancor prima di Surfer Rosa dei Pixies, odiava il metal, così diceva, e allora cercò volti nuovi per la svolta pop di quel sound di Seattle. Steve Albini non ha mai perso occasione per manifestare il suo odio verso il metal. Chissà se poi era veramente così: se non fosse più un amore-odio, oppure semplici leggende metropolitane.

In Utero rappresenta l’eredità di quel periodo storico; un pezzo di storia contemporanea imprescindibile, un cordone ombelicale un po’ usurato ma ancora integro su cui arrampicarsi ancora, senza le solite scuse. Del resto, come cantava Kurt Cobain: “Cosa c’è di sbagliato? Tutto sommato è ciò che siamo”.

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