Green Day: recensione di American Idiot

Recensione a cura di Chiara Profili

21 settembre 2004.
I Green Day pubblicano American Idiot, il loro settimo album in studio, secondo, per vendite e successo, solo a Dookie.

Dall’album è stato tratto un musical che ha debuttato a Broadway il 20 aprile 2010 presso il St. James Theatre.

American Idiot è una sorta di concept album, con la pretesa di essere ispirato a Tommy, degli Who.

Parla di un ragazzino, Jimmy, il quale ci racconta quanto faccia schifo la sua vita di periferia, fin quando non scappa per raggiungere la città.

In città si rende conto che detesta la società in cui vive e si estrania, estraniandosi si sente solo, sentendosi solo si droga e manda all’aria una storia d’amore, infine capisce che trasferirsi era stata una mossa sbagliata.

Questa storia, che pecca un po’ di originalità, è raccontata nei tredici brani contenuti nel disco; un disco che si distacca dal genere che aveva sempre contraddistinto i Green Day, il punk, per tentare di abbracciare il rock, ottenendo, come risultato, un punk annacquato e molto pop, fatta forse eccezione per la lunghissima Jesus of Suburbia che meriterebbe un discorso a parte in quanto, nei suoi nove minuti, miscela momenti di puro punk a frangenti alla Bryan Adams, ad altri effettivamente più rock.

Gli altri temi trattati nel disco, al di là della storia di sottofondo, vanno dall’odio per l’allora presidente Bush, all’odio per i mass media, all’odio per l’americano medio che si beve tutto ciò che la tv gli propina.

Tralasciando il gusto personale, non si può negare che questo disco sia stato un’ancora di salvezza per molti adolescenti degli anni 2000, oltre ad un grande successo commerciale.

Alcuni dei singoli estratti sono fra i brani più rappresentativi della band americana: Boulevard of Broken Dreams, Holiday e la title track.

E se possiamo attribuire un ruolo a Wake Me Up When September Ends, di certo sarà quello di riempire le bacheche Facebook il nono mese dell’anno.

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