Red Hot Chili Peppers: recensione di Unlimited Love

Red Hot Chili Peppers

Unlimited Love

Warner

1 aprile 2022

genere: alternative rock, funk, soul, rap

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Recensione a cura di Lorenzo Marsili

“Tutto il mio amore e metà dei miei baci/ Le superstar non lavano i piatti/ Voglio solo che le grandi scimmie siano libere/ Vieni adesso, pigro cowboy/ Teste o code, ma non qui boy/ Voglio solo che le grandi scimmie siano libere”. No, non me lo sono inventato. Il ritornello di The Great Apes è proprio così.

Alle soglie dell’esibizione dei Red Hot Chili Peppers al Firenze Rocks, andiamo ad analizzare il disco della discussa reunion della storica band californiana. Ho deciso di prendermi un po’ di tempo prima di recensire questo disco, perché quando si parla dei Red Hot è sempre difficile togliere di mezzo quel legame che ci lega ai ricordi dell’infanzia, o dell’adolescenza, e si finisce sempre per essere un po’ troppo indulgenti.

D’altronde, i Red Hot sono stati in grado di accompagnare almeno tre generazioni come perenni giovincelli, imperturbabili allo scorrere del tempo, con la loro energia incontenibile ed i muscoli sempre in bella vista, sempre freschi di palestra e personal trainer. Stavolta, però, sembra che i tempi siano finalmente cambiati. John Frusciante è tornato nel gruppo (di nuovo?) e lo ha fatto senza avere (quasi) assolutamente nulla da dire. Unlimited Love passerà dunque alla storia come un disco di reunion, di quelli come ne abbiamo visti tanti – e come tale rimane un disco nostalgico e innocuo, fuori dal suo tempo.

Consideriamo che, per la prima volta nella storia dei Red Hot, Frusciante non entra nella band in qualità di giovane, ma anzi come lo stagionato esperto chiamato a sostituire il giovane – da molti erroneamente definito inesperto – Klinghoffer, che nel frattempo gli aveva brillantemente “scaldato il posto”. Ora, lasciamo perdere per un attimo gli scempi, stampa italiana in primis, che sono stati compiuti a livello giornalistico sul povero Klinghoffer. Il rientro di Frusciante sposta l’età media del gruppo, per la prima volta nella loro carriera, ampiamente sopra i 50 anni e, al tempo stesso, cestina dalla band l’unico ragazzo sotto i 40. L’unico, forse, ancora in grado di comunicare con quella che, da venticinque anni a questa parte, rappresenta il target d’elezione della band, i teenager americani.

Ecco che, quindi, se pochi anni fa ancora potevamo capire il concept dietro al video di Dark Necessities, con la band a fare da colonna sonora ad un gruppo di ragazze in skate e un tono generale del singolo leggermente più cupo rispetto ai precedenti, in linea con il percorso di maturazione (e l’età media) del gruppo, si può provare un certo imbarazzo nel guardare il video di These Are The Ways, nel vedere un Anthony Kiedis sessantenne impersonare la parte del fidanzato costretto a rubare cibo per la giovanissima moglie incinta.

È alla luce di una “rinnovata vecchiaia” che bisognerebbe ascoltare Unlimited Love, che gioca tutte le carte in suo possesso per rievocare nostalgicamente il periodo della transizione alternative-pop, a partire dal rientro di Rick Rubin in cabina di regia. Se si eccettua qualche episodio sporadico, come la deludente Poster Child, i RHCP fanno di tutto per rievocare il sound eclettico della triade Californication/By The Way/Stadium Arcadium, lasciando sistematicamente fuori tutto ciò che è stata prima e dopo.

Persino l’assenza di spunti da parte dei vari side project ( Atoms For Peace in primis) fa pensare al disco come una raccolta di canzoncine generata dall’entusiasmo generale di un gruppo di vecchi amici ritrovatisi a suonare insieme dopo molto tempo. E fin qui, tutto sommato, non ci sarebbe nulla di male. La sensazione generale, però, è che manchi la consapevolezza del reale valore artistico di queste composizioni. Basta guardare i comunicati con cui la band ha presentato il nuovo materiale: “Le nostre antenne sintonizzate con il cosmo divino, eravamo così dannatamente grati per l’opportunità di stare insieme in una stanza e, ancora una volta, cercare di migliorare. Giorni, settimane e mesi trascorsi ad ascoltarci, comporre, jammare liberamente e arrangiare con grande cura e determinazione il frutto di quelle jam sessions. I suoni, i ritmi, le vibrazioni, le parole e le melodie ci hanno rapito.”

Lo stesso si può dire del tono entusiastico con cui Rubin ha intervistato i vari membri nel suo podcast.

Messo da parte l’entusiasmo, però, Unlimited Love rimane un disco tutto sommato spontaneo, ma troppo lungo e privo di idee degne di nota tale da giustificarne l’imponente mole. Un prodotto che, se non fosse stato partorito proprio dai Red Hot Chili Peppers, non sarebbe nemmeno arrivato sui nostri radar e men che meno introdotto da parole tanto altisonanti. Ma lasciamo da parte il divino o il cosmo.

La maggior parte dei brani di Unlimited Love sono canzonette, e faranno rivalutare l’ascolto di dischi già di per sé sottotono come By The Way, Stadium Arcadium e The Getaway. Flea e Smith, come al solito, danno ancora una volta prova di essere dei musicisti fenomenali, in grado di regalare grandi momenti (Aquatic Mouth Dance, Watchu Thinkin’ su tutti), anche se occasionalmente penalizzati dalle scelte di missaggio (Black Summer). Frusciante non stupisce, ma svolge egregiamente il suo compitino, con il suo caratteristico trasporto e gusto melodico, indulgendo un po’ troppo nei suoi soliti cliché, Fuzz Factory in primis.

La sensazione, quindi, è quella di un collettivo ancora in ottima forma, ma in ostaggio di un cantante che sembra vanificare costantemente tutti gli sforzi di tirare fuori qualcosa di buono. E non parlo nemmeno dell’intonazione: quella, di per sé, è già salvata dalle pennellate di autotune, spesso persino eccessive da
parte della produzione di Rubin. È proprio la scrittura delle linee melodiche e dei testi ad essere veramente debole, a tratti persino imbarazzante. Passi pure un brano-scioglilingua come Poster Child, pieno com’è di frasi senza senso come “Bubble gum I come bazooka dirty dandy nana-loka”.

È verosimile pensare che i testi di Kiedis prendano spunto da particolari secondari, che vengono appiccicati all’interno delle storie in un modo assolutamente incoerente. Frasi come: “Le pesche sono vendute e tutti rinunciano a quello stile Humpty/ alla croce di Caldwell dalla cima nera/ lei è eurasiatica/ l’ho incontrato al Quick Stop/ abbiamo ballato al Tito’s Go Go/ la fidanzata è tornata/ ora è da sola” fanno rimpiangere i peggiori Verdena, o i vostri taccuini del liceo.

In alcuni episodi, invece, oltre al testo è persino l’interpretazione a non reggere il confronto col resto della band. È il caso, ad esempio, di un brano come These Are The Ways: discutibile per una band di 50enni, un po’ troppo derivativo di un certo college punk anni ’90, ma suonato in modo davvero invidiabile. Il passaggio vocale del ritornello “These are the ways when you come from America/ The sights, the sounds, the smells”, sia a livello d’interpretazione, sia metrico, sia melodico, è debole, moscio, privo di vigore, mentre sotto la ritmica è forte e compatta.

A detta dello stesso Frusciante, però, pare le colpe vadano condivise, perché le parti chitarristiche sono state scritte in presenza di una parte vocale già definita. Giù il cappello, quindi, per la capacità dei Red Hot di essere democratici in simili frangenti, perché io un cantante che mi propone un ritornello così debole l’avrei subito defenestrato.

L’impressione è anche che Rubin, completamente abbagliato dall’entusiasmo e dalla “magia della band” (come da lui stesso definita), non si sia realmente reso conto di avere tra le mani una manciata di composizioni scialbe. Perché, possiamo dircelo, se dopo tutti questi mesi di prova i Red Hot Chili Peppers non riescono a presentare un singolo con un ritornello migliore di These Are The Ways, vuol dire che o le idee erano poche, o qualcosa è andato storto. La presenza di un ghostwriter, anche a buon mercato, avrebbe fatto miracoli. Il problema è che i Red Hot, senza Kiedis, non sono e saranno mai la stessa cosa.

Poco male, comunque, per quei nostalgici e conservatori che se ne potranno fregare della qualità generale e ascoltare i suoni a cui erano abituati venti, o persino trenta fa e sentirsi ancora una volta degli adolescenti brufolosi. Sicuramente spalancheranno la bocca nel sentire il tocco hendrixiano di Frusciante introdurre le note di Black Summer, con quel chorus che avevamo già sentito in Soul To Squeeze e Under The Bridge.

Black Summer, tutto sommato, non sarebbe nemmeno così male, ed è esattamente quella cosa che i Red Hot non sarebbero mai riusciti a scrivere con Klinghoffer. L’unico problema è che il pezzo suona esattamente come avrebbe dovuto suonare trent’anni fa, e gli anni ’90 sono finiti da un pezzo. Il pezzo migliore del lotto è forse Aquatic Mouth Dance : con un missaggio migliore che riporta Flea in primo piano, uno dei ritornelli più interessanti da anni a questa parte e tanto di sezione di ottoni a ricollegare la band, seppur con un approccio più maturo e rilassato, al periodo in cui si portava dietro i fiati dal vivo.

Il resto di Unlimited Love è composto da brani riempitivi, che piacciono dal terzo ascolto in poi per le facilonerie dei ritornelli, ma che spesso non reggono il confronto nemmeno con gli episodi peggiori di Stadium Arcadium. Si salvano forse i pezzi più semplici e corti: She’s A Lover, col riff che rimanda alla cover di If You Want Me To Stay, e White Braids & Pillow Chair, con un piacevole finale emotivo in stile western, sebbene un po’ troppo ripetitivo e privo di dinamica.

Non manca qua e là qualche tentativo di sviluppare episodi più complessi (The Heavy Wing , These Are The Ways, Bastard Of Light, Veronica), anche se il sentore generale è che scarseggino di fluidità tra le parti. Non manca nemmeno la canzone col ritornello cantato da John (The Heavy Wing), a celebrare il nuovo-vecchio percorso musicale della band. Lasciando da parte le canzoni costruite su giri paraculo (Let’em Cry , Tangelo), il brano peggiore del disco è senza dubbio The Great Apes, che contiene forse il refrain più brutto e insensato della loro discografia (“Tutto il mio amore e metà dei miei baci/ Le superstar non lavano i piatti/ Voglio solo che le grandi scimmie siano libere/ Vieni adesso, pigro cowboy/ Teste o code, ma non qui boy/ Voglio solo che le grandi scimmie siano libere” ). Sulla rima “boy-cowboy” credo non ci sia bisogno nemmeno di commentare.

Unlimited Love non verrà ricordato come il disco peggiore dei Red Hot, ma quasi. In qualche modo è un lavoro ascoltabile, che sicuramente riuscirà ad accontentare più di un vecchio fan. Il problema di Unlimited Love è anche quello di non aver saputo presentare, a differenza dei precedenti – almeno quelli con Frusciante – una tracklist che riuscisse a mettere in fila 5 buoni brani fin dall’inizio, peraltro più adatta ad una band arena-rock nell’epoca dello streaming digitale. In 73 minuti, alla fine, nemmeno le escursioni chitarristiche di Frusciante, o i numeri di Flea al basso, riescono a salvare l’ascoltare dalla noia.

Tutto questo non lascia grandi speranze rispetto a ciò che possiamo aspettarci dal futuro, dato che questa enorme quantità di materiale è già stata frutto di una selezione. In realtà, la tracklist avrebbe beneficiato di un’ulteriore, radicale selezione, che accorciasse il disco di altri 40 minuti. Ma queste chiacchiere lasciamole tranquillamente ai forum di Reddit.

Testi e musiche di Anthony Kiedis, Flea, John Frusciante e Chad Smith.

Tracklist:

Black Summer
Here Ever After
Aquatic Mouthdance
Not the One
Poster Child
The Great Apes
It’s Only Natural
She’s a Lover
These Are the Ways
Whatchu Thinkin’
Bastards of Light
White Braids & Pillow Chair
One Way Traffic
Veronica
Let ‘Em Cry
The Heavy Wing
Tangelo

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