Trivium: recensione de In The Court Of The Dragon

Trivium

In The Court Of The Dragon

Roadrunner Records

8 ottobre 2021

genere: thrash metal, heavy metal, metalcore, dark metal, symphonic metal

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Recensione a cura Marco Calvarese

Signore e signori, possiamo discutere quanto vogliamo ma, stringi stringi, la musica si divide in tre categorie: musica mediocre, buona musica (indipendentemente dal genere musicale) e i Trivium. E ci sono due tipi di ascoltatori: chi ama i Trivium e chi mente.

Lo dico da tiepido fan del metalcore che, però, non può esimersi dal notare una maturazione esponenziale di questa band, album dopo album: la sensazione è che In The Court Of The Dragon sia un vero masterpiece, tanto per il livello tecnico ormai raggiunto dai quattro musicisti, quanto per la loro capacità di spaziare, sperimentare e dilagare in ogni angolo del metal, senza mai perdere di vista mission e sonorità.

L’ultima fatica in studio del gruppo di Orlando ruota intorno a tematiche epiche rese attualissime attraverso una maestria compositiva che si avvale del genio di Matt Heafy e della verve abbacinante di Alex Bent alle pelli. Un lavoro discografico che non deve essere giudicato al primo ascolto, poiché le reminiscenze sonore emergono via via più limpide man mano che si approfondisce la conoscenza di questo LP, come una bella donna al terzo appuntamento. Reminiscenze, sì: perché In The Court Of The Dragon fa a pezzi doom, groove, speed, thrash, melodic, epic, progressive, symphonic, dark e neoclassic per immagazzinarne l’essenza e rielaborarla facendola propria, come Christopher Lambert in Highlander o, se preferite, come in un’opera figurativa cubista.

Qui, il metalcore rappresenta solo la radice di una sequoia, la tela grezza su cui i pittori di Orlando lavorano di pennello. Il risultato è sontuoso e fa dei Trivium una band d’élite, in questa occasione anche con il prezioso contributo alle tastiere di un artista del calibro di Ihsahn (ex Emperor), giusto per conferire atmosfera e completezza a questo (capo)lavoro.

Il brano che dà il nome all’opera è emblematico: un dirompente impatto metalcore che, con notevole savoir fair, introduce il fortunato fruitore in un mondo popolato dai fantasmi dei Pantera, dei Meshuggah e, nell’assolo, degli Stratovarious, riletti in una chiave che solo ai Trivium è dato possedere, grazie alla voce tanto versatile di Matt e ad una sessione ritmica con pochi eguali.

Il festival compositivo si sposta sulle sponde più thrashy che possiate immaginare con il riff immediato di Like a Sword Over Damocles, per poi riprendere il largo nel bridge e nell’assolo, generando un mix di chitarre maideniane, basi progressive e passaggi trafugati dal bagaglio sonoro degli Slayer. Ci si abbandona ad un brano easy e dal refrain immediato come Fist Of Fire, nel più classico dei palm mute e in un “tapping solo” da brividi che si sdraia su tempo dispari a impreziosire un singolo già di sicuro successo.

Non manca nulla (perfino cori vintage) al personalissimo caleidoscopio sonoro di Gregoletto & Co., soprattutto non manca tanta melodia intessuta in modo organico: ad esempio, le chiare influenze Kreator di A Crisis Of Revelation, come ricami dorati tra le maglie metalliche di una solida cotta medioevale.

Un medioevo nel quale ci precipita l’apertura arpeggiata di The Shadow Of The Abbattoir, come se per un attimo i Bathory di Blood On Ice avessero scollegato inavvertitamente gli alimentatori dalle chitarre, sfociando in una ballata dal sapore folk melodico e struggente, cui subito fa da contrappeso il thrash di No Way Back Just Through.

Quello che lascia senza fiato dei Trivium è che non sai mai cosa aspettarti, non solo dal brano successivo, ma anche dagli arrangiamenti all’interno di ogni singola traccia: come nel caso di Fall Into Your Hands, brano dalle fondamenta dark, nel quale Heafy e soci innestano, da sapienti botanici, due passaggi strumentali, uno di mera violenza thrash, l’altro dalle atmosfere puramente progressive. L’incrocio sonoro produce un frutto stupefacente, gustosissimo, in grado di riempire lo stomaco del metallaro più vorace di headbanging e, al contempo, soddisfare i palati più raffinati.

La pietanza successiva, From Dawn to Decadence, è un olio su tela dal tratto sicuro, in cui gli artisti in questione mescolano tinte sonore forti come un Van Gogh su uno sfondo che richiama (in nomen omen) i paesaggi blasfemi e lovecraftiani dei migliori Paradise Lost, ottenendo un effetto stupefacente, terrificante e avvolgente, che vi stupirà fino a gettarvi ai piedi di The Phalanx, dove vi aspetta ancora il perfido Matt, pronto a iniettarvi direttamente in vena quel riff che avrebbe tranquillamente potuto scolpire il più ispirato James Hetfield imbracciando la chitarra di Greg Mackintosh.

L’effetto volutamente riservato per il botto finale, vi assicuro, è dirompente, e vi porterà alla perdizione, alla folle voglia di pogare, fino a sfiancarvi e lasciarvi ammaliare e trascinare tra spartiti ‘à la Adrian Smith’ e riff progressive, in un’atmosfera epica che, non fosse per le distorsioni, potrebbe comodamente chiudere un concerto dei Gamma Ray.

In The Court Of The Dragon prende forma nel suo pantheon di riferimenti e fonti discografiche senza eguali, ma con un sound e una peculiarità compositiva ormai inconfondibili. Sì, voglio andare fino in fondo: rendo omaggio agli artefici di quello che, non ho alcun dubbio, si candida prepotentemente ad album metal del 2021. Provare per credere.

Tracklist:

X (intro)
In the Court of the Dragon
Like a Sword Over Damocles
Feast of Fire
A Crisis of Revelation
The Shadow of the Abattoir
No Way Back Just Through
Fall into Your Hands
From Dawn to Decadence
The Phalanx

Formazione:

Matthew Kiichi Heafy – voce, chitarra
Corey Beaulieu – chitarra, seconda voce
Paolo Gregoletto – basso, seconda voce
Alex Bent – batteria, percussioni

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