Articolo a cura di Andrea Musumeci
Ogni anno l’industria pubblicitaria spende miliardi di dollari (o euro, fate voi) perché sa che le informazioni che arrivano ai consumatori andranno ad influenzare le loro menti, insieme ai loro usi e costumi. Com’è sempre stato. Quindi, se è vero che adolescenti e adulti vengono condizionati dalla pubblicità della Coca Cola, o da quella di un nuovo smartphone, la medesima linea strategica sarà valida anche per determinati prodotti discografici indirizzati a un ascolto di massa e a diverse fasce di pubblico, suddivise a seconda del segmento anagrafico.
“Nel bene e nel male, purché se ne parli” e “la pubblicità è l’anima del commercio”: ecco, questi due antichi e inossidabili princìpi del marketing, per quanto apparentemente basici, regolano i meccanismi di propaganda del cosiddetto “sistema” e hanno resistito negli anni ai numerosi e profondi cambiamenti della società ed è facile intuire che saranno efficaci anche in futuro per le prossime generazioni.
Insomma, come funzionano slogan, comunicazione di massa e rapporto tra domanda e offerta, nel contesto della contemporaneità sempre più digitalizzata, lo hanno capito tutti, tranne una schiera di detrattori indignati e livorosi, i quali, sprovvisti della benché minima argomentazione di fondo (alla Pino Scotto, per capirci) e ottusamente aggrappati alla nostalgia canaglia dei ricordi e delle frasi fatte, si scagliano contro il successo mondiale (a loro dire, sovrastimato e immeritato) ottenuto dalla rock band romana Måneskin, in comproprietà con la multinazionale Sony Music.
Discutere all’interno della rete fognaria dei social network è, a tutti gli effetti, una scelta consapevole, seppur condizionata di riflesso da altri fattori esterni (come il cane di Pavlov), tant’è che, ormai da tempo, anche a causa di una saturazione mediatica, alcuni temi sono addirittura arrivati ad essere campi di dibattito a rischio censura. Ad esempio, un argomento come la musica rock, già nel giro di una manciata di emoticon e pochi commenti, si può trasformare in acceso fanatismo religioso, condito da insulti, logiche fallaci e bias cognitivi d’ogni genere. A dimostrare, ancora una volta, il fallimento delle scuole dell’obbligo.
Il problema di fondo è che spesso gli utenti credono di essere speciali per un certo tipo di musica e, nello specifico, per i loro idoli: la maggior parte dei fan del rock, comunemente e simpaticamente chiamati “boomer”, si illude che ci sia un rapporto esclusivo con i propri beniamini e così, seguendo a ritroso questa infantile suggestione, finisce per aggrapparsi a quel fortino emotivo. Ma è lapalissiano, per non dire ingenuo o surreale, che non potrà mai essere così. Soprattutto, se non hai lavorato in fabbrica per trent’anni.
Quello a firma Måneskin/Sony è un brand discografico che continua a condizionare, destabilizzare e polarizzare gli umori dell’opinione pubblica. Dopo aver mosso i primi passi nel talent show X Factor, sotto l’ala protettiva del giudice Manuel Agnelli (che di recente li ha definiti i “Beatles italiani”), il giovane quartetto capitolino ha avviato una scalata mainstream velocissima e irresistibile, collezionando in breve tempo una serie di importanti eventi e riconoscimenti sia sul territorio nazionale che oltreconfine: la pubblicazione di un EP e di un album, vittoria al festival di Sanremo e all’Eurovision Song Contest, il raggiungimento della vetta della classifica mondiale di Spotify, la collaborazione con Iggy Pop nel loro brano “I Wanna Be Your Slave”, il concerto nel famoso club Bowery Ballroom di New York e la partecipazione in qualità di ospiti nel programma Tonight Show di Jimmy Fallon.
E non solo: pochi giorni fa, i Måneskin, sfoggiando per l’occasione un abbigliamento in versione Cugini Di Campagna “a stelle e strisce”, hanno inferto l’ennesima pugnalata al cuore dei loro denigratori seriali, aprendo il concerto dei Rolling Stones a Las Vegas. Un trionfo in mondovisione. E come se non bastasse, prenderanno parte al festival di Lollapalooza che si terrà a Parigi il prossimo anno. Verrebbe da dire che “tira più un pelo dei Måneskin che un carro di buoi”. Il ché si evince dalla mole di commenti sotto ogni post a tema Måneskin.
Al netto di tale cassa di risonanza e cotanta notorietà, i fegati spappolati che popolano il web si sono ritrovati, loro malgrado, a dover affrontare un vero e proprio cortocircuito, nella totale incapacità di gestirlo sia a livello dialettico che psicologico. Potremmo provare a dividere gli haters in almeno tre categorie: gli utenti conservatori che vivono esclusivamente e religiosamente nel classic rock del passato e che ascoltano soltanto radio mainstream (Led Zeppelin, Queen, Biffy Clyro, Imagine Dragons, Virgin Radio, ecc.); gli utenti snob che ascoltano soltanto musica di nicchia, tipo tutta quella roba indipendente (meglio se fusion, post-punk, noise industrial, afrogarage jazz, kraut cosmico, avantgarde…) che aiuta a sentirsi più fighi, misteriosi, e che ovviamente solo un ristretto gruppo di eletti può comprendere; infine, quei musicisti falliti, o caduti nel dimenticatoio, che, trainati dall’invidia (hanno tutta la mia finta empatia) di non aver avuto lo stesso appoggio mediatico e accecati da una ingiustificata autoindulgenza referenziale, tengono vivo il vecchio ma sempre attuale proverbio della volpe e dell’uva, riducendosi a sfogare il loro (ri)sentimento sui social network: da un lato per scaricare quella rabbia repressa e dall’altro per ritagliarsi un piccolo spazio di visibilità (vedi i Cugini Di Campagna) cavalcando, per cortocircuito e paradosso, proprio l’onda mediatica dei Måneskin.
Un livore mediatico (incomprensibile) che, sfociando nel nonsense, sembra manifestarsi e materializzarsi, purtroppo, come un’eccellenza tutta made in Italy, poiché, a differenza di quanto accade da noi, all’estero i Måneskin continuano a raccogliere un riscontro di consensi unanime. È sufficiente sbirciare nel profilo facebook ufficiale di Mick Jagger e leggere il tenore dei feedback sotto la sua foto insieme ai Måneskin.
Secondo la piattaforma digitale TalkWalker, i fan dei Måneskin (dati espressi in percentuale) sono soprattutto statunitensi, segue poi l’Italia, la Spagna e il resto dell’Europa, con un’età media compresa tra i 18 e i 24 anni. Il fatto che riscontrino anche il gradimento di una fetta di pubblico over 40 non è un fattore predominante per quella che è la strategia di marketing della Sony, rivolta ovviamente a uno specifico target anagrafico e commerciale e ad una precisa modalità di fruizione del prodotto stesso.
Ma allora, per quale ragione persiste questa forma di pregiudizio legata alla giovane età dei Måneskin? Perché un fruitore over 40 viene considerato fuori tempo massimo per unirsi alla platea dei Måneskin, in quanto ventenni, ma non lo è più se c’è di mezzo una band straniera come i Black Midi? Eppure, grosso modo, hanno la stessa età. Forse, il problema è ascrivibile semplicemente al fatto che appartengono a due canoni musicali ed estetici differenti?
Che nel nostro Paese ci sia un problema culturale ben radicato è un dato di fatto: mentalità provinciale, ottusità cerebrale, guerre tra poveri, contraddizioni sociali, sottomissione nei confronti dell’esterofilia, quel fastidioso vizio di critica del voler utilizzare due pesi e due misure, a seconda della convenienza, e quel moralismo controverso, populista e qualunquista da parte di quelli che, dall’alto del loro analfabetismo funzionale, si permettono di giudicare il “sistema” attraverso strumenti simbolo del consumismo.
I Måneskin sono prodotti commerciali, figli della loro epoca e del duopolio capitalismo-consumismo, così come lo sono stati in passato (e lo sono ancora se consideriamo l’aspetto del merchandising) Elvis Presley, Beatles, KISS, Sex Pistols, Queen, Guns N’ Roses, Metallica, Nirvana, tutta la famiglia del grunge di Seattle, Foo Fighters, ecc., ma, al tempo stesso, al di là della patina glamour che li accompagna, sono anche dei giovani talentuosi e carismatici. Pensate veramente che un’azienda come la Sony vada a sputtanare la propria immagine e i propri investimenti monetari esportando un gruppo rock, oltretutto italiano, senza talento?
C’è chi non perde occasione per lamentarsi che il rock è morto e che le nuove generazioni ascoltano tutto fuorché la musica rock. Contestualmente, c’è chi si lamenta del fatto che la musica italiana, fuori dalle mura tricolori, sia famosa unicamente per la tradizione lirica e operistica e per la canzone Nel Blu Dipinto di Blu di Domenico Modugno. Di conseguenza, allo stato delle cose attuali, è più ragionevole che surreale pensare che il fenomeno Måneskin possa rappresentare, a lungo raggio, una sorta di cavallo di Troia (che poi non era affatto un cavallo) per la musica rock italiana, nel tentativo di frantumare certi preconcetti legati a vecchi retaggi e scardinare certe dinamiche ostili, aprendosi così a nuove opportunità e conquiste per il genere rock, con il nobile scopo di (ri)scoprire l’importanza delle radici del passato per comprendere e anticipare il futuro, così da poter ricostruire fondamenta sostenibili che non siano soltanto circoscritte alle mode usa e getta del presente.
“Qui una volta era tutta campagna”. Oggi è tutto Måneskin.
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