Los Angeles, 29 Novembre 2001.
George Harrison muore di cancro all’età di 58 anni, a casa di un amico a Los Angeles.
Il suo corpo viene cremato, come da lui richiesto nelle sue ultime volontà, e le sue ceneri, raccolte in una scatola di cartone, vengono sparse nel sacro fiume indiano, il Gange, secondo la tradizione induista.
Da sempre il Beatle più riservato, quello più spirituale, Harrison ha faticato ad emergere come individuo all’interno del gruppo, schiacciato dalla coppia aurorale per eccellenza, il binomio Lennon/McCartney.
Ma quelle rare volte in cui Harrison è riuscito a venire fuori, l’ha fatto con grande stile. Suo è il brano più bello, a parer mio, del ‘White Album’, ‘While My Guitar Gently Wheeps’ e sua è anche una delle più dolci canzoni d’amore mai scritte, ‘Something’.
Dopo lo scioglimento dei Beatles, Harrison ha proseguito la sua carriera come solista, con buoni risultati e ha fatto parte del supergruppo dei ‘Traveling Wilburys’ insieme a Bob Dylan, Tom Petty, Jeff Lynne e Roy Orbison.
Forse non tutti sanno che, il 30 dicembre 1999, il chitarrista dei Beatles aveva subito un’aggressione da uno squilibrato, tale Michael Abram, introdottosi nella sua residenza inglese nel corso della notte sfondando una delle porte a vetro, pugnalandolo svariate volte al torace. Era stata la moglie Olivia a salvarlo, colpendo l’aggressore sulla testa con un attizzatoio.
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