The Lumineers a Cardiff: il live report

Con i Lumineers avevo una storia di appuntamenti mancati e sincronizzazioni interrotte da recuperare.
Li avevo persi a Ferrara e, quando suonavano a Dublino, mi trovavo nella stessa città ma per un altro concerto. Appena ho visto la data di Cardiff, ho colto l’occasione: finalmente, lo spazio e il tempo si allineavano. Era il momento giusto per vederli.

Il concerto è stato aperto da Michael Marcagi, che ha portato il suo indie alternative rock da Cincinnati, Ohio, intrattenendoci prima dell’arrivo della band principale.
L’attesa è poi culminata con l’ingresso dei Lumineers, dando inizio a un’esperienza calda, coinvolgente, familiare e artisticamente curata, sia dal punto di vista musicale che visivo.

Ventotto le canzoni in scaletta, un sogno per ogni fan legato alla musica della band più che ad altri tipi di distrazioni. Siamo stati deliziati da tutti i brani più noti, come Ho Hey e Ophelia, ma lo spettacolo è andato ben oltre la semplice successione di hit.

Un aspetto che mi ha colpito profondamente è stato l’impegno della band nel coinvolgere davvero tutti, nessuno escluso. Anche chi, come me, pensava di restare nelle retrovie per godersi una visione d’insieme è stato sorpreso: il palco modulare offriva due prospettive diverse e la band ha attraversato il corridoio centrale, arrivando vicino al fondo della sala. Spostavano strumenti — tastiere e pianoforti inclusi — quasi a ogni brano, con una fluidità logistica sorprendente, senza creare interruzioni o cali di ritmo.

Durante Brightside (una delle mie preferite), Wesley Schultz è sceso tra il pubblico cantando tra la gente, mentre altri membri della band salivano fino ai balconi, per non negare un saluto nemmeno a chi era nei piani alti.

Un altro elemento che ho apprezzato molto è l’approccio visuale del concerto, perfettamente in sintonia con il desiderio del pubblico di scattare qualche foto o girare brevi video, in modo discreto e rispettoso.
Anziché contrastare questa pratica, i Lumineers la valorizzano: si prestano con pose studiate, giochi di luci, ombre cinesi, sfondi suggestivi. Non un semplice accompagnamento, ma un vero e proprio strato aggiuntivo di narrazione visiva. Una scelta artistica intelligente, che trasforma un potenziale motivo di tensione in un elemento integrato e coerente.

Nessuna critica a chi sceglie di vietare l’uso dei dispositivi — come i Ghost, che fanno del mistero un elemento fondante della loro estetica live — purché tutto avvenga con coerenza e rispetto per il prodotto artistico. Tuttavia, trovo che i Lumineers abbiano adottato una soluzione aperta, inclusiva e brillante, interagendo persino con il materiale che i fan pubblicano online.

Per me, vivere il momento significa anche usare l’obiettivo della fotocamera come estensione della mia ispirazione e della mia esperienza sensoriale — e, talvolta, come schermo per proteggere gli occhi dalle luci troppo intense.
Scatto solo quando sento una connessione autentica con gli artisti. Come dico sempre: se non faccio foto, non è perché mi sto godendo il momento, ma perché non mi state trasmettendo nulla.

Non è stato questo il caso dei Lumineers.
La loro musica e i loro testi coinvolgono a livello uditivo, mentale ed emotivo. È un’esperienza completa, che mette al centro l’artista con la sua arte e la sua anima. Le vibrazioni arrivano in profondità, con un’intensità carica di significato.

Riassumerei quindi un live dei Lumineers come un’esperienza quasi mentale, nel senso più positivo del termine: si torna a casa con le loro melodie nelle orecchie e con suggestioni metaconsapevoli, emozioni silenziose che continuano a risuonare.
Un’esperienza che ha risposto perfettamente alle mie aspettative — e che consiglio di provare almeno una volta nella vita.

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