King Buffalo: recensione di The Burden of Restlessness

King Buffalo

The Burden of Restlessness

Stickman Records

4 giugno 2021

genere: alternative rock, prog rock, heavy blues, heavy psych, fuzz stoner, elettronica tribale, spiace groove, doom metal

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Recensione a cura di Andrea Musumeci

Con alle spalle 4 EP e 2 full-lenght, lo scorso 4 giugno il trio heavy psych rock newyorkese King Buffalo ha mandato alle stampe il suo nuovo album intitolato The Burden of Restlessness, edito per l’etichetta Stickman Records.

The Burden of Restlessness è il terzo atto discografico realizzato dal 2020 ad oggi dal tridente statunitense; una iper-produzione bulimica dal forte accento emotivo indotta dalla quarantena e riflesso diretto dell’isolamento per via del covid. Un momento storico che, a livello globale, ha messo a dura prova relazioni interpersonali, sanità mentale degli individui ed amplificato una vasta gamma di distorsioni cognitive, inasprendo divisioni sociali e riportando a galla diverse espressioni di intolleranza.

Un altro anno perso nella terra desolata, un altro giorno annega nella polvere, un altro morto nella landa desolata. Siamo stoppini o fiamme? E se fossero la stessa cosa?

Tra i morsi della depressione, un frustrante senso di impotenza e smarrimento, e parafrasando la poetica del “fardello dell’uomo bianco” di Joseph R. Kiepling, i King Buffalo riescono a dispensare la loro misteriosa dark art e il “fardello dell’irrequietezza” dell’attualità; un antico kraken tentacolare che, dagli abissi dell’anima, inghiotte e assorbe tutte le correnti emozionali del nostro tempo, per poi restituirle in superficie in altra forma, deturpandone i lineamenti e trascinandosi tra simbolismi misteriosi ed esoterici verso un immaginario post-apocalittico e uno stato di cecità permanente, capillare e invasivo.

Le sette tracce di The Burden of Restlessness, muovendosi come uno sciame famelico tra le pieghe bibliche e “locustiane” della nostra esistenza, si allineano all’interno di un involucro astrale che, permeato da un’aura mistica e distopica, fluttua nell’etere per mezzo di atmosfere dilatate e cervellotiche sci-fi e strutture ritmiche minacciose, abrasive, metalliche, pachidermiche e serrate.

Un climax strumentale e sinistro intriso di assoli di chitarra claustrofobici e lancinanti, canti ascetici dal fascino magnetico e mantra solenni, loop psichedelici ossessivi e alienanti di rimando pinkfloydiano, interiorità soniche, distorte e collose che fuoriescono dalle orbite oculari (come raffigurato nell’artwork dell’album), riff al fulmicotone, arpeggi geometrici e lisergici post-rock, percussionismi tribaleggianti e progressioni frenetiche e stoppate che, da un lato, potrebbero rievocare i densi intrecci degli Eileen Sol, e dall’altro non sfigurerebbero come b-sides di Fear Inoculum dei Tool.

Quella dei King Buffalo è un’opera in cui riecheggia l’incubo pestilenziale camusiano, seppur declinato in chiave moderna, intorno a uno stato di equilibrio/squilibrio psichico tra sfera dionisiaca e apollinea, nichilismo estremo e spirito autodistruttivo: un armamentario compositivo dove pedaliere fuzz friggono, ribollono e penetrano sotto la scorza epidemica dei brani, risvegliando certe inquietudini localizzate nella profondità dei bassi, lasciando stordimento e cicatrici indelebili.

Pertanto, al pari di noi “comuni mortali”, anche i King Buffalo si sono ritrovati inermi di fronte a mostri che conoscevamo e a mostri di cui non sapevamo ancora nulla. Alcuni di questi mostri sono (ancora) dentro di noi e abbiamo dovuto imparare a conviverci e, probabilmente, ad accettarli, strisciando via dalle crepe dei nostri muri quotidiani come pesciolini d’argento, nello sforzo utopico di risollevarci dal “terriccio del nulla” per risorgere dalle macerie di un presente sempre più perverso e destabilizzante.

Membri della band:

Sean McVay: voce, chitarra

Dan Reynolds: basso

Scott Donaldson: batteria

Tracklist:

1. Burning

2. Hebetation

3. Locusts

4. Silverfish

5. Grifter

6. The Knocks

7. Loam

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