The Style Council
Our Favorite Shop
Polydor Records
27 maggio 1985
genere: jazz, bossanova, caraibico, funk rock, blues, rhythm and blues, soul, swing, pop d’autore, jungle pop
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Recensione a cura di Andrea Musumeci
“La drogheria appende l’insegna, il cartello dice che è chiuso, è un segno dei tempi, come tutto il resto, se ne sono andati tutti. Ma da qualche parte la festa non finisce mai, e le mani avide si sfregano di nuovo”.
Siamo a metà degli anni 80, e certi scenari sociopolitici dell’epoca non sembrano poi così distanti da quelli attuali. Caratterizzati dal ritorno a un benessere diffuso dopo gli anni grigi del terrorismo, gli anni 80 si distinsero come fase di transizione post-ideologica, dove cultura dell’individualismo e privatizzazione del lavoro riuscirono gradualmente a indebolire la forza di quei diritti collettivi acquisiti nelle lotte sindacali, determinando ricchezza proprietaria e povertà pubblica.
Nel 1985, dunque, in quella nuova prospettiva di società rampante proiettata verso una condotta di vita legata a un edonismo scevro da qualsiasi senso di colpa, Paul Weller e Mick Talbot, a distanza di un anno dall’esordio con Café Bleu, pubblicano il loro secondo album intitolato Our Favourite Shop a firma The Style Council, in collaborazione con un ampio stuolo di musicisti, a rendere ancora più brillante e suggestivo il loro sound eterogeneo.
Dopo essersi lasciati entrambi alle spalle le rispettive esperienze musicali – Paul Weller coi The Jam e Mick Talbot con i Merton Parkas – i The Style Council hanno continuato ad alimentare il loro effervescente trademark compositivo a metà tra retrò e moderno, sia in virtù di una maturità già ampiamente acquisita nel trattare tematiche rilevanti come razzismo, disoccupazione, droghe e disparità sociali, sia per la necessità di reinventarsi e misurarsi con nuove sfide e con abiti sonori che oggi identifichiamo come vintage.
Un vintage che profuma di modernità è proprio quello che viene raffigurato nell’artwork di copertina di Our Favourite Shop. Sotto l’aspetto grafico, l’intento era quello di ricreare un proprio negozio ideale, uno spazio personale dove poter collezionare e ammirare antichità e memorabilia iconiche che fino a quel momento avevano ispirato l’immaginario artistico di Paul Weller e Mick Talbot: “L’idea originale alla base dell’album è una specie di parallelismo con un negozio in cui sono mescolate le nostre cose preferite, allo stesso modo in cui la nostra musica prende spunto da stili molto diversi”, come dichiarato dallo stesso Modfather.
Rappresentanti del clima musicale e politico dell’Inghilterra di quel periodo (la rielezione della Thatcher ebbe effetti devastanti sullo stato sociale e sull’assistenzialismo governativo che serviva a scongiurare la disoccupazione di massa), e totalmente affascinati dalla varietà della musica nera, i The Style Council riuscirono a sfoggiare tutto il loro eclettismo musicale nel confezionare un sofisticato, energico e ambizioso “working class pop” d’autore, fresco e iper-contaminato sul versante stilistico: smoothy jazz & soul di scuola Motown (The Lodgers), funk rock blueseggiante (Internationalists, Homebreakers) e il groove swingato degli Steely Dan, passando per accattivanti incursioni di piano rock alla Elton John e scalmanati boogie R&B alla Earth Wind & Fire (Walls Come Tumbling Down, Shout To The Top). Il tutto arricchito da uno scintillante tripudio d’archi e fiati, a cui si aggiungono sciantose fisarmoniche di valzer francesi (Down In The Seine) e un gusto particolare per ritmiche latine di bossanova (All Gone Away, With Everything To Lose, Our Favourite Shop).
In quella nuova ondata di fusion atmosferica che investì il Regno Unito, nota anche come new pop o new romantics, di cui facevano parte anche nomi illustri quali Duran Duran, Spandau Ballet, Simply Red, Swing Out Sister, ABC, Matt Bianco, Sade, Aztec Camera e Prefab Sprout, i The Style Council, con Our Favourite Shop, diedero vita a un vero e proprio album di protesta, attraverso un certo attivismo politico profuso nei testi, in difesa dei diritti civili e di tutti quei princìpi screditati e rottamati dalle lobby dei profitti (“tutto l’amore e la forza sono stati portati via da questo governo, vedi, ti dicono di spostarti se non riesci a trovare lavoro nella tua città. Il padre è in cucina, a contare le monete, la madre in camera da letto, guarda le foto dei suoi figli, uno è a Londra cerca un lavoro, l’altro è a Whitehall alla ricerca dei responsabili”).
I The Style Council trovarono modo, dunque, di esprimere tutta la loro sensibilità scritturale osservando i cambiamenti del loro tempo, mostrando rabbia per tutte quelle situazioni destabilizzanti (“sto affondando così velocemente in acque impreviste a cui una volta mi aggrappavo, ma mi è sfuggito di mano, ora le cose che amavo sono le cose che non sopporto”) che stavano portando a condizioni di disperazione (“quando ti colpiranno sulla schiena e la tua vita è un fiasco, e quando sei sul fondo non c’è altro che gridare in alto”).
Una forma di lotta e resistenza nei confronti del degrado economico di origine thatcheriana (“perché sotto questo sistema non esiste la democrazia che i nostri leader vorrebbero farci cantare”) e dell’ipocrisia medio-borghese che si celava dietro le facciate di “case deliziose” (Come To Milton Keynes). Nonostante tutto, però, c’era ancora spazio per l’utopia: secondo Paul Weller e Mick Talbot l’unica alternativa possibile allo status quo degli interessi individuali era quella di tornare ad essere una forza collettiva aggregante e coesa (“i governi crollano e i sistemi crollano perché l’unità è potente”).
E allora non resta che riascoltare e rivivere la magia dei The Style Council, lasciando alle onde della nostalgia il compito di distrarci e cullarci, di intristirci e rallegrarci. Così, rintracciando non poche connessioni con le difficoltà del presente, è nel nostro paradiso perduto che troveremo la nostra sanità mentale; è lì che perderemo la nostra strada per un nuovo, coraggioso giorno.
Tracklist:
1. Homebreakers 2. All Gone Away 3. Come To Milton Keynes 4. Internationalists 5. A Stones Throw Away 6. The Stand Up Comic’s Instructions 7. Boy Who Cried Wolf 8. A Man Of Great Promise 9. Down In The Seine 10. The Lodgers (Or She Was Only A Shopkeeper’s Daughter) 11. Luck 12. With Everything To Lose 13. Our Favourite Shop 14. Walls Come Tumbling Down 15. Shout To The Top
Membri della band:
Paul Weller – voce/chitarre/basso/sintetizzatore; Mick Talbot – organo Hammond/tastiere; Steve White – batteria/percussioni; Dee C. Lee – voce; Lenny Henry – voce; Tracie Young – voce; Camele Hinds – basso; Stewart Prosser – tromba/flicorno; David Defries – tromba/flicorno; Mike Mower – flauto/sassofono; Chris Lawrence – trombone; Clark Kent – contrabbasso; Gary Wallis – percussioni; John Mealing – orchestrazione/arrangiamento archi; Anne Stephenson – violino; Charlie Buchanan – violino; JocelyPook – viola; Audrey Riley – violoncello; Peter Wilson – programmazione tastiere; Patrick Grundy-White – corno francese; Steve Dawson – tromba; Billy Chapman – sassofono; Kevin Miller – basso; Helen Turner – piano
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