Il film è uscito da quasi un anno, quando mi accingo a guardarlo.
Perché ho aspettato tutto questo tempo? Perché ero timorosa e scettica, ma anche poco interessata. Perché generalmente non faccio le cose per moda, non ne parlo quando lo fanno tutti, ma anche perché se voglio saperne di più sulla vita di un personaggio preferisco guardare un bel documentario, piuttosto che un biopic.
Biopic, ovvero, bio(graphical) pic(ture): la fotografia della vita di qualcuno.
Quando si fotografa qualcosa si cerca sempre di mettere a fuoco il soggetto prescelto, di inquadrare ciò che si ha di fronte da una precisa angolatura.
Qual è il focus del film Bohemian Rhapsody? Si tratta della vita di Freddie Mercury, certo, ma quale aspetto della sua breve, ma intensa esistenza vuole essere messo in luce?
La storia d’amore con il suo Love of My Life Mary Austin? Il rapporto con gli altri membri della band? La scalata al successo dei Queen? I pregi e difetti (forse più i difetti) di un essere umano come tutti noi, ma con un talento unico?
Tutti questi elementi e molti altri vengono affrontati in maniera superficiale e un po’ confusa, senza che sia chiaro l’intento dei due registi che si sono avvicendati nella direzione di questa pellicola e forse è proprio questa discontinuità nella regia ad aver accentuato il problema.
Se fotografia e costumi sono quasi impeccabili, lo stesso non si può dire della sceneggiatura. Dialoghi banali, battute buttate lì a caso, frasi ruffiane piazzate ad arte per riscuotere il consenso del fan coi paraocchi, che era già felice del risultato ancor prima di aver visto il film.
Una storia come quella di Freddie Mercury avrebbe potuto e dovuto smuovere sentimenti e commozione nello spettatore, ma questo non accade, almeno, non in chi scrive, per via del taglio che è stato dato al biopic. La figura del frontman dei Queen non ne esce bene da questo racconto.
Freddie viene dipinto come una primadonna egocentrica ed egoista, come un bambino viziato e depravato e chissà, magari era davvero così, ma considerato che i produttori di questa pellicola sono i suoi ex compagni Brian May e Roger Taylor, trovo che sia stato poco carino da parte loro calcare la mano così tanto su questo aspetto.
Al povero John Deacon va forse anche peggio: il suo ruolo è a dir poco marginale, del geniale talento di questo bassista non rimane che un frame, una scena di qualche secondo.
In due ore era impossibile trasporre l’intera carriera di una band leggendaria come i Queen e, tra finzione e realtà, si è cercato di fare un riassunto prendendo in considerazione i momenti più salienti in un lasso di tempo che copre quindici anni. Oltretutto, il film risulta lento e poco scorrevole, a tratti noioso, e viene quindi da chiedersi se quelle due ore non avrebbero potuto essere sfruttate meglio.
I momenti migliori sono quelli musicali, quelli nei quali si scopre come sono nate alcune canzoni che resteranno nella storia, ma sulla scena finale del Live Aid, ho anche lì i miei dubbi. All’epoca dell’uscita del film lessi di gente che uscì dal cinema in lacrime… Ora mi chiedo: non hanno mai guardato il video originale su YouTube? Non sarà più emozionante vedere il vero Freddie, anziché il suo interprete cinematografico?
E su questo voglio spendere altre due parole. Oscar a Rami Malek come Miglior Attore Protagonista. Sappiamo che spesso, in passato, l’Academy ha premiato quegli attori che hanno subìto importanti trasformazioni fisiche, ma in questo caso, oltre all’applicazione di una dentatura posticcia, dove sarebbe la trasformazione? L’impegno di Malek nel tentare di replicare le movenze di Farrokh Bulsara non passa inosservato, ma non l’ho trovato così sensazionale rispetto a quello di alcuni concorrenti del programma di Rai Uno Tale e Quale Show. Viggo Mortensen in Green Book, quella è un’interpretazione da Oscar.
Sugli altri attori non mi soffermo. Palesemente scelti più per la somiglianza, che per la bravura.
È lapalissiano che quanto scritto fin qui non siano altro che mere considerazioni personali, con le quali sicuramente in molti non saranno d’accordo. Un merito, comunque, alla pellicola, mi sento di attribuirlo. Quello di aver riacceso i riflettori sui Queen e sulla musica rock in generale, di aver fatto appassionare nuovi giovani ascoltatori, di aver lanciato il trend dei biopic, perché vige la regola “nel bene e nel male, purché se ne parli“.
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