Lorenzo Ciavola in arte Moonmine: intervista per Fotografie ROCK

Dopo aver rilasciato i due EP Private Conversations e My Revolution, e in attesa dell’uscita del suo primo full-lenght (già in lavorazione), il poliedrico cantautore e polistrumentista Lorenzo Ciavola in arte Moonmine si racconta sulle pagine di Fotografie ROCK.

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Ciao Lorenzo, cominciamo con il chiederti: come nasce il tuo progetto musicale Moonmine?

Considerando che sembro giovane, ma ormai non lo sono più così tanto (l’anno prossimo compirò 40 anni), possiamo dire che suono praticamente da sempre, visto che ho iniziato con il pianoforte quando avevo 9 anni; una passione trasmessami da mio padre, che è cresciuta sempre di più diventando un faro nella mia vita e che ho sviluppato studiando sia musica classica che jazz, fin quando non ho conosciuto il rock, che mi ha definitivamente conquistato. Per mia natura, poi, essendo una persona molto curiosa, ho cercato e cerco tutt’ora di spaziare il più possibile tra i vari generi. Naturalmente ho avuto le prime esperienze con varie band, con le quali ho fatto diverse date in giro per le Marche. Ho partecipato anche ad un’edizione di Arezzo Wave, con uno dei miei pezzi inediti, approdando alla finale regionale a Senigallia. Una volta conclusa quella fase della mia vita, mi sono trasferito da Fabriano a Latina e per un periodo ho messo da parte i miei progetti musicali per dedicarmi ad altre cose, facendo solo qualche collaborazione.

Avevi abbandonato anche la scrittura?

No, in questi anni ho sempre continuato a scrivere e ad accumulare materiale, che riponevo in un cassetto. Poi, un giorno, mi è scattato qualcosa nel cervello e mi sono deciso a fare sul serio; ho sempre voluto fare la ‘rockstar’ e ho pensato che fosse giunto il momento di provarci. Ho messo da parte quelle insicurezze che avevo in gioventù e mi sono buttato. È la prima volta nella mia vita che faccio qualcosa solo per me, in maniera completamente indipendente, considerando anche che pubblico esclusivamente opere tramite licenze libere, le Creative Commons, e che ciò mi permette sia filosoficamente che politicamente di essere libero. In altre parole, la mia musica può circolare liberamente e senza filtri.

Come hai scelto il moniker Moonmine?

Cercavo un nome che suonasse bene, che fosse unico e che mi rappresentasse. The Moon is mine, la Luna è mia, è un modo per riferirmi al mio nuovo percorso.

Quali differenze noti tra il tuo primo EP Private Conversations e i tuoi ultimi lavori?

Il primo EP è stato il frutto di ciò che avevo messo da parte in questi anni ed è nato senza troppi ragionamenti. È pervaso da chitarre acustiche sovraincise, molte voci e orchestrazioni; ciò che prediligo quando lavoro agli arrangiamenti. Volevo che, anche con strumentazioni scarne, il disco rendesse bene. Inizialmente avevo pensato di diffondere la mia musica nell’etere senza pubblicizzarla, ma poi mi sono reso conto che c’era un interesse vero verso ciò che avevo pubblicato e mi sono quindi servito di alcuni catalizzatori al fine di promuoverlo. Questo scambio con l’esterno mi ha permesso di uscire dalla mia testa e di provare a guardarmi dal di fuori. Mi sono così convinto che avrei dovuto sviluppare al meglio le mie idee, in maniera quanto più possibile professionale.

Hai acquisito più convinzione e consapevolezza nei tuoi mezzi…

Esatto. Gli apprezzamenti che ho ricevuto da chi aveva ascoltato la mia musica mi hanno spronato a continuare. Prima della pubblicazione del mio secondo EP, ho buttato giù parte di quello che sarà il mio prossimo album, che sto ultimando e che conto di far uscire nel corso del 2022, e che sarà il mio manifesto. All’epoca preferii buttarmi parallelamente su altre idee, perché temevo che far uscire un album, in quel momento, sarebbe stato troppo affrettato. Così sono nati i singoli Dice e What You Give e, successivamente, il breve EP My Revolution, di soli 11 minuti, che contiene dei suoni più elaborati rispetto a Private Conversations, pur rimanendo lo-fi.

È questa la tua idea di rivoluzione? Un’introspezione intima che si riflette sulle percezioni altrui?

Esatto. ‘Rivoluzione’ è un termine molto complesso, che lascia spazio a numerose interpretazioni, tralasciando quelle più banali. In questo caso è sicuramente una rivoluzione molto intima, legata anche al contesto in cui viviamo e al rapporto che stiamo intrattenendo, volenti o nolenti, con il virtuale. La mia rivoluzione si espleta nella volontà di essere me stesso senza filtri e senza incasellarmi in categorie di pensiero standard. È stato un modo per rompere con un ambiente globale che spesso vivo un po’ da outsider. La copertina dell’EP, infatti, ritrae me, sul divano, che vi guardo attraverso un televisore.

Rispecchia fedelmente i tempi che stiamo vivendo, tra un lockdown e l’altro. Dicevamo che il tuo è un progetto One Man Band, fatto in casa. Viste le tue intenzioni di evolvere in complessità la tua musica, finalizzandola all’uscita di un LP, pensi che ti aprirai anche a collaborazioni con altri strumentisti e/o etichette discografiche o rimarrai fedele alla tua linea?

Sono sicuro che, almeno per quest’album, rimarrò completamente da solo, perché si tratta dell’ultima tappa di questo mio percorso, che voglio concludere con le mie forze e senza compromessi, pur con tutti i miei limiti. L’album, che si chiamerà Free.Pop, è l’emblema di ciò che sto facendo, per quanto io detesti le categorie (anche perché ‘pop’ vuol dire tutto e niente) e rappresenta l’approccio che ho alla melodia, all’armonia, all’orecchiabilità e alla sinuosità di certi fraseggi, senza dover per forza etichettare il mio sound, lasciandolo molto libero, senza schemi preimpostati. Sarà un mix abbastanza esplosivo tra rock, funk, blues, jazz, elettronica e approcci sperimentali. Ci saranno 13 brani, tra cui una mini suite, alcuni in lingua inglese e altri in italiano. L’italiano per me è una cosa nuova, che ho lanciato in questi giorni col mio ultimo singolo, Uccidimi, che, a detta di molti, è forse il mio miglior lavoro.

Concordiamo.

Vi ringrazio. L’italiano mi permette di esprimere bene ciò che ho nella mente; cantare nella nostra lingua è sempre stato fuori dal mio ordinario, anche perché i miei ascolti si rifanno principalmente al mondo anglofono, perciò l’inglese era sempre stato la scelta più naturale, anche per via della musicalità della lingua. Ho capito, però, che l’italiano poteva farmi comunicare al meglio con il pubblico e consentirmi di abbattere dei muri, così ho cercato di scrivere testi in italiano, pensandoli come se li stessi scrivendo in inglese ed il risultato mi è piaciuto molto.

È una bella sfida: non è semplice ed è sempre apprezzabile chi riesce a calarsi con successo nella dimensione della lingua italiana. Per quanto riguarda i testi dei tuoi componimenti, come nascono e cosa ti ispira nello scriverli?

Normalmente i miei testi nascono da sensazioni, emozioni e percezioni personali, che cerco di tradurre in modo quasi allegorico. Sicuramente la libertà è uno dei concetti che mi trovo ad esprimere più spesso nelle mie liriche. Una libertà che si traduce nel voler essere una persona indipendente, non schiava di consuetudini, di giudizi e di opinioni altrui. Mi piace altresì esprimermi rispetto alle sensazioni più pure che la vita ci dona, al rapporto con la natura e ad un certo tipo di spiritualità agnostica.

È tutto incentrato su un cammino introspettivo…

Sì, assolutamente.

Visto che sei un musicista, ma sei anche un utente, che visione hai del mondo della musica odierno e della discografia attuale, che passa sovente attraverso i talent show?

Ultimamente, e lo dico mio malgrado, sono molto più musicista che utente. Ad ogni modo, penso che la discografia moderna produca ancora grandi espressioni musicali, seppur non originali rispetto a qualche decade fa; tuttavia, in Italia, specialmente, se non fai parte di certi contesti e non scendi a patti con certe realtà, è molto difficile che tu riesca ad emergere. Sicuramente è cambiata la fruibilità della musica: nonostante resistano alcune frange integraliste legate al vinile e al supporto fisico in generale, la musica gira principalmente in streaming. Le multinazionali discografiche devono monetizzare il più possibile, perciò i prodotti devono nascere rapidamente e avvicendarsi in successione. La musica è diventata più di passaggio, rispetto a prima; c’è meno approfondimento e, al contrario, vi è una spettacolarizzazione delle emozioni e dei sentimenti, che culmina nei talent show. Tutto ciò mi disgusta, tant’è che non seguo alcun programma del genere.

Noi quest’anno abbiamo guardato X Factor per seguire i Mutonia, band che sosteniamo da tempi non sospetti.

Sono scelte personali e come tali vanno rispettate, ci mancherebbe. Io ho deciso tardi di provare a prendere in mano il sogno che avevo sempre avuto fin da giovane e mi ritrovo ora in un contesto particolare, perché sono un artista emergente, ma ho quasi quarant’anni. Perciò, quando mi viene chiesto perché non provo a partecipare ad un talent, rispondo che mi sentirei anagraficamente fuori posto. Nella mia visione, forse un po’ romantica, credo che possano esserci altre vie, al di fuori di quelle che ci vengono quasi imposte, sicuramente più difficili e meno immediate, ma io so essere particolarmente paziente.

Certi contesti, nella società contemporanea, sono però inevitabili e ci riferiamo in particolar modo al mondo dei social network. Abbiamo, purtroppo, constatato che molte realtà musicali non sfruttano appieno le potenzialità mediatiche dei social, trascurando il lavoro svolto, nel nostro caso gratuitamente, da webzine e uffici stampa, mentre abbiamo notato che, da parte tua, c’è un interscambio sincero, onesto ed equilibrato con queste realtà.

Sarebbe doveroso, almeno nell’underground, fare fronte comune tra i vari settori, dalle agenzie di stampa, alle webzine, dalle etichette, agli stessi artisti. Anch’io sto notando questa sorta di lassismo di cui parlate voi e cerco sempre di supportare e condividere le cose che mi piacciono, ma non sempre c’è uno scambio reciproco. Sembra quasi un ‘tutti contro tutti’. La copertina di Uccidimi, non a caso, ritrae un dipinto del 1250 circa, che ho reperito sull’archivio del Getty Museum di Los Angeles, il quale contiene opere di pubblico dominio, prive di diritto d’autore. Quel dipinto del Medio Evo rappresenta l’uccisione di Assalonne, il figlio di Re David. Il senso era quello di mostrare il balzo all’indietro che abbiamo fatto culturalmente come società, ritornando al tempo dei barbari.

Pertanto, al netto delle dinamiche interattive della contemporaneità, e auspicando dei segnali di ripresa sul versante della comunicazione e delle relazioni interpersonali, non possiamo che invitare i nostri lettori a seguire ed ascoltare Lorenzo Ciavola aka Moonmine, che ringraziamo per la sua disponibilità e per averci concesso questa piacevole intervista.

https://youtu.be/9ni1bdBqy9A

facebook/moonminemusic/

https://moonmine.bandcamp.com/

Instagram/moonminemusic

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