Bruce Dickinson
The Mandrake Project
BMG
1 marzo 2024
genere: heavy metal, opera-rock
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Recensione a cura di Marco Calvarese
Lo confesso prima di cominciare: su Bruce Dickinson sono maledettamente di parte, perché è il mio cantante preferito e sto aspettando da mesi il suo “progetto Mandrake”. Ovviamente, ho ascoltato i singoli che hanno preceduto la pubblicazione: carini, sì, ma così, decontestualizzati, rischiano di portarmi per la tangente.
Del resto, chissà cosa avrei voluto che sfornasse il mio genio della lampada: forse che esaudisse tutti i miei desideri musicali. Eppure lo conosco da una vita. Se c’è una dote che spicca nel suo bagaglio culturale (oltre quelle canore, s’intende), è l’imprevedibilità. Dunque al diavolo i timori, l’ho preordinato come se non ci fosse un domani, ed eccolo finalmente fra le mie mani, The Mandrake Project, settimo sigillo della sua carriera solista.
Dopo una lunghissima pausa, il progetto riprende il suo corso: stessa lineup, ma con Roy Z, la cui collaborazione con il frontman degli Iron Maiden è ormai consolidata e indubbiamente riuscita, nel duplice ruolo di chitarrista e bassista. Stesso spirito sbarazzino, profondamente ispirato nel songwriting e libero da qualsiasi vincolo o definizione, dal sound così vario da ricordare più i primi due album, sia pure in formato moderno, che i super-acclamati Accident Of Birth e seguenti.
Un booklet meraviglioso che già a scartarlo, con una cautela quasi deferente, si capisce di che si tratta: un’opera d’arte a tutto tondo, corredata di una cover magnifica (morte capti, non carcere: il nostro eroe non si fermerà mai!) e da un fumetto che racconta, con le immagini, la trama che ascolterò dalle casse.
The Mandrake Project sviluppa una materia affascinante: quello del dopo-apocalisse (Afterglow Of Ragnarok), della sfida alla morte, dell’innata sete di immortalità, ma anche del rinunciarvi per tornare umani e vivere appieno il presente, in un multiverso di contraddizioni e chiaroscuri tangibili, tanto nei testi quanto nelle armonie.
Seguendo le linee immaginarie concepite dalla mente di Dickinson, troviamo quel filo rosso intimo e intricato che da sempre contraddistingue i suoi migliori album solisti, riflettendosi sulle note di un album che non dà l’idea di un concept (e in effetti come tale non è stato elaborato), quanto piuttosto del libretto di un’opera avanguardista, pur con riferimenti al passato.
Questo ne fa un lavoro sgradevole o inorganico? Assolutamente no, ma certo lo rende meno immediato dei predecessori, che pure contenevano vissuto personale, riferimenti poetici o filosofici, ma avevano comunque la musica (l’heavy metal) in primo piano. Con The Mandrake Project, invece, le parti si ribaltano: al centro c’è un tema che diviene prima narrazione e poi musica, in un connubio che, più che da stadio, sembra pensato per un musical.
Una sorta di Grand Guignol diviso in atti, ciascuno dei quali, a sua volta, si dipana spesso in modo imprevedibile, assecondando poco la tradizionale forma-canzone, a parte la maideniana Eternity Has Failed, o la puramente dickinsoniana Mistress Of Mercy, che sembra estratta da Accident Of Birth, oppure la opening track Afterglow Of Ragnarok, l’episodio che meglio sintetizza la poliedricità dell’album, con quell’intro slayeriano e quel riff articolato ad accompagnare la dolce e cupa melodia del refrain.
Il tutto suona maledettamente opera-rock, anche grazie alla teatralità di Bruce Dickinson, che qui raggiunge vette inusitate, ma soprattutto al ruolo da protagonista che riveste il lavoro di Maestro Mistheria lungo tutto il film sonoro (fino a farla da padrone in Fingers in The Wounds, il brano più sperimentale), con sullo sfondo un profondo spirito AOR (provate ad ascoltare Many Doors to Hell e ditemi se non ci sentite Tattooed Millionaire e qualcosa dei Ghost nel ritornello), ma più distorto.
Forse lo zenit compositivo viene raggiunto con la meravigliosa Resurrection Men, in cui Roy Z deve averci messo tanto del suo, mescolando melodie acustiche e percussioni pulp a uno sludge profondamente sabbathiano nell’esecuzione centrale. Non riuscirete più a togliervela dalla testa.
Bruce, nel suo progetto camaleontico, ha attinto a piene mani a qualunque genere musicale gli consentisse di sottolineare il suo racconto nel modo più consono, senza disdegnare il ricorso al puro cantautorato dalla melodia britannica (Face in The Mirror); ha perfino abbandonando il cantato per una mera narrazione, come nella stupenda Rain On The Graves, arricchita da un assolo denso di pathos maideniano.
La chiusura è classe pura: un lungo outro malinconico che scorre tra le incantevoli ballad Shadow Of The Gods, i cui bassi e le armonie rimandano inevitabilmente a The Chemical Wedding, mentre la struggente Sonata (Immortal Beloved) è il disperato grido d’aiuto che lentamente cala il sipario, attraverso note solistiche dal sapore pinkfloydiano.
Come giudicare The Mandrake Project lo lascio stabilire a voi: io sono troppo di parte. Quello che posso affermare, con assoluta certezza, è che vale tutto il tempo che gli sto dedicando: emoziona e migliora ascolto dopo ascolto. Nel complesso, un lavoro eccentrico come solo Bruce Dickinson sa esserlo, a metà tra danze macabre e romanticismo, che ci restituisce un cantante in forma smagliante.
Forse un passo indietro in termini di produzione (un po’ di confusione sonora in alcuni passaggi, come nel bridge di Afterglow Of Ragnarok o nel refrain di Fingers in The Wounds, con linee vocali talvolta sottoesposte), ma si resta su livelli di qualità e ispirazione altissimi, che meriterebbero un seguito senza dover aspettare altri diciotto anni. Arriverà mai? Sono certo che Bruce risponderebbe: morte capti, non carcere.
Membri della band:
Bruce Dickinson – voce
Roy Z – chitarra, basso
Mistheria – tastiere
Dave Moreno – batteria
Tracklist:
1 Afterglow Of Ragnarok – 2 Many Doors to Hell – 3 Rain on The Graves – 4 Resurrection Men – 5 Fingers in The Wounds – 6 Eternity Has Failed – 7 Mistress Of Mercy – 8 Face in The Mirror – 9 Shadow Of The Gods – 10 Sonata (Immortal Beloved).
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