Pantera: recensione di Cowboys From Hell

Recensione a cura di Andrea Musumeci

E pensare che i texani Pantera, a metà anni ’80, erano partiti come potenziale glam street band: look fashion e laccato, sembravano la brutta copia dei Mötley Crüe.

Si può dire, serenamente, che i fratelli Abbott, Phil Anselmo e Rex Brown le hanno provate proprio tutte per arrivare al successo.

Nel 1990 i Pantera decisero di cambiare registro e quindi di imboccare la strada del thrash metal, anche se la consacrazione internazionale, come band groove metal, arriverà solamente due anni più tardi con la pubblicazione di Vulgar Display of Power, quando raggiungeranno, una volta per tutte, una loro identità, definita e riconoscibile.

Cowboys From Hell, a mio avviso, risente ancora troppo delle influenze dei grandi gruppi metal degli anni ’80: Heresy somiglia parecchio a Battery dei Metallica, Clash With Reality ricorda Blackened, sempre dei Metallica, Shattered sembra indossare la stessa pelle dei Judas Priest, Primal Concrete Sludge porta con sé il marchio Anthrax, mentre Domination risente fortemente di retaggi hardcore punk e poi il riff è praticamente identico a quello di Helpless dei Diamond Head.

Cemetery Gates è la classica power ballad anni ’80: inizia lenta, con arpeggi melodici, per poi esplodere in tutta la sua potenza nel ritornello, mentre merita una menzione a parte l’intro di basso in The Art of Shredding che, a mio parere, è a dir poco spettacolare.

I Pantera, dunque, negli anni ’90, furono una ventata di freschezza nel panorama metal di quel periodo storico: insieme ai Sepultura, i Pantera furono l’esercito della resistenza del genere thrash metal, quello più duro e feroce.

Il thrash metal, così come tutta la musica metal degli anni ’80, aveva esaurito le sue forze e si stava chiudendo un ciclo: dal 1986 al 1990 aveva dato davvero tanto, aveva raggiunto il suo picco massimo di notorietà, fino ad esaurire l’ispirazione e saturarsi.

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