Pulp: recensione di More

Pulp

More

Rough Trade

6 giugno 2025

genere: brit-pop, new wave, jangly-pop, R&B, disco-soul, glam-synth

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Recensione a cura di Andrea Musumeci

A soli ventiquattro anni di distanza dal precedente We Love Life, e una carriera pluritrentennale alle spalle, i Pulp tornano in scena con il nuovo album di inediti intitolato More, edito per la celeberrima etichetta londinese Rough Trade e anticipato dall’uscita del singolo Spike Island.

In questo lungo silenzio discografico si sono susseguite una pandemia, l’ascesa dello streaming – con molti giovani che hanno scoperto i Pulp su TikTok -, la piattaformizzazione dell’ascolto e la scomparsa del bassista Steve Mackey nel 2023. Proprio la morte di Steve ha spinto Jarvis Cocker a riflettere sul tempo e sulla possibilità di essere ancora creativi: “finché sei vivo hai la possibilità di fare qualcosa”. Da qui la decisione di riunire gli altri tre membri storici, Nick Banks alla batteria, Mark Webber alla chitarra e Candida Doyle alle tastiere, perché, prima ancora che una band, i Pulp sono un gruppo di vecchi amici.

In un contesto profondamente cambiato, i Pulp – una delle grandi outsider band britanniche della loro generazione, nata nel polo siderurgico di Sheffield, con un suono che unisce glam anni ’70, synth anni ’80, brit-folk e un’estetica dandy-bohémien – non rincorrono velleità da revival, ma tracciano un percorso laterale, autobiografico, centrato sul tema esistenziale legato allo scorrere inesorabile del tempo.

Lo fanno con profondità, introspezione e quella giusta dose di ironia che li contraddistingue, esplorando la vita adulta con le sue fragilità e nuove opportunità, confrontandosi con le trasformazioni fisiche e interiori della maturità, in bilico tra la consapevolezza che certi momenti non torneranno e il desiderio di restare aperti al mondo, per continuare a sentirsi vivi: “we want another encore, we want more”.

“Qualcuno mi ha detto che l’album si addice alla nostra età”, dice Cocker, “non so se prenderlo per un complimento, ma ci sta: sono effettivamente adulto”.

Attraverso le undici tracce che lo compongono, More affronta con sguardo lucido e personale temi legati all’identità, al tempo che passa (come già anticipato), al bisogno di connessione e alle trasformazioni interiori della vita adulta. Se in Farmer Market, Cocker racconta l’intimità che affiora dai piccoli gesti, dai silenzi e dagli oggetti dell’ordinario, in Got To Have Love guarda all’amore come bisogno essenziale, utile a colmare certi vuoti e la distanza che aumenta con l’età.

In My Sex, Jarvis rievoca la propria educazione sentimentale da una prospettiva femminile, restituendo un ritratto domestico e riservato. In Partial Eclipse, l’invisibilità diventa una forma di autodifesa, di resistenza quotidiana (“sometimes it’s kinder not to shine”), mentre Grown Ups descrive il passaggio alla maturità come una perdita progressiva di certezze (“trying so hard to act just like a grown up, and it’s so hard, and we’re hoping that we don’t get shown up, ‘cause everybody wants to grow up”).

Sul piano sonoro, More si muove tra riferimenti precisi ma rielaborati con misura: l’elettricità brit-pop, riverberi psych-folk, l’elettronica atmosferica dei Japan, il chiaroscuro morbido dei Roxy Music, il passo contemplativo dei Talk Talk, il soul levigato del Bowie di Young Americans, le orchestrazioni dilatate e cupe di Scott Walker, fino a un crooning malinconico e riflessivo che fonde il calore di Frank Sinatra con l’elegante distacco di Bryan Ferry.

Spike Island apre con una linea di basso elettronico in loop che richiama gli Stones rivisitati in chiave glam-synth, ma ispirandosi soprattutto al Bowie di Heroes. Un brano circolare in cui Cocker riflette sulla vocazione dell’artista e sul peso di sogni giovanili rimasti addosso:“Pensavamo di provare a giocare coi sogni, ma non sapevamo che saremmo stati costretti a tenerceli addosso per tutta la vita”.

Farmer Market scalda l’atmosfera con fiati e orchestrazioni vellutate che evocano i New Order di fine anni ’80, mentre My Sex di adagia su un tappeto R&B sensuale alla Barry White. Slow Jam sceglie il piano e i fiati leggeri per costruire un clima rarefatto, con chiari rimandi all’introspezione orchestrale di Scott Walker.

Il trittico finale – Partial Eclipse, The Hymn Of The North e A Sunset – chiude il disco come una lunga suite cinematica, omogenea e compatta, fatta di dissolvenze, archi, echi notturni e toni sospesi. I riferimenti tornano: il Bowie acustico dei Settanta, i Roxy Music più raffinati, gli Style Council più ricercati. Nel frattempo, la voce di Jarvis diventa sempre più densa e sussurrata: uno spoken-word discreto e avvolgente in grado di creare uno spazio sonoro raccolto e intenso.

More non rifiuta la nostalgia, ma la osserva da una certa distanza, senza indulgenza. Lo suggerisce anche la copertina: i Pulp di ieri, fermi su una roccia davanti a una montagna. Un’immagine che riflette il senso del disco, dove il passato resta visibile ma non ingombrante. È da lì, da quel punto sospeso tra memoria e presente, che i Pulp tornano a dire – in primis a se stessi – che c’è ancora qualcosa da scoprire dietro quella montagna che chiamiamo futuro. Come scriveva José Saramago: “Il passato è la materia con cui il presente si costruisce”, ma come ricorda anche Lucio Corsi, “nemmeno da vecchi si sa cosa faremo da grandi”.

Tracklist:

1. Spike Island 2. Tina 3. Grown Ups 4. Slow Jam 5. Farmers Market 6. My Sex 7. Got To Have Love 8. Background Noise 9. Partial Eclipse 10. The Hymn of the North 11. A Sunset

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